Guccini in 40 canzoni: l’antologia definitiva di autentici capolavori dimentica la sua voce

Gabriella Fenocchio per Bompiani, rigorosa, anche troppo I testi vivono di suoni e qui manca l’erre blesa del maestro

MARIO BRANDOLIN

«Un altro bel carme, trovato manoscritto che iniziava così: è morto bischero (…) Ma a parte l’incomprensibilità del sostantivo, ci colpirono i versi seguenti: all’ospedale – senza le baie – senza i cojon, la cui apparente oscurità ci fu chiarita dallo strano impiego della consonante “j”, solitamente assente dal lessico italiano. Per una felice induzione riconoscemmo in essa la “jota” spagnola e comprendemmo di aver tra le mani la traduzione ancora incompleta di una poesia iberica». Etc etc… Umberto Eco, Diario minimo, 1975, un succoso pamphlet in cui con l’ironia di cui era maestro sbertucciava certe esagerazioni tipiche di tanta ricerca filologica applicata anche laddove non ce n’era bisogno; oltre a “è morto bischero”, il grande Eco si dilungava con sommo divertimento, suo e nostro, su “papaveri e papere”, “grazie dei fiori” e via discorrendo con il più bieco canzonettume italiota.

Ci è venuto in mente questo saggio dell’Eco semiologia e critico puntuto a proposito di Canzoni di Francesco Guccini, nella narrazione filologica di Gabriella Fenocchio edito da Bompiani. E non tanto per le canzoni di Guccini, che sono sicuramente tutt’altra cosa da quelle irrise da Eco, ma per la pedanteria professorale con la quale l’autrice chiosa le oltre 40 canzoni di Guccini prese in considerazione, nel tentativo, affatto ardito o nuovo peraltro, di dimostrare che questi testi, «possono, così la curatrice, a buon diritto collocarsi nel panorama poetico del Novecento italiano non solo per la qualità dell’elaborazione formale ma nondimeno per la densità letteraria e i molteplici echi intertestuali di cui la gran parte delle parole risuona».

Da qui la loro pubblicazione come in un’antologia scolastica, secondo l’ordine cronologico di scrittura (da Auschwitz alla canzone del congedo nel 2013 L’Ultima Thule), con tanto di note, anche ridondanti; un’analisi estetica a spiegare il senso della canzone, il contesto in cui è nata, le suggestioni ideologiche o letterarie che l’hanno stimolata, con riferimenti a poeti e scrittori grandissimi – da Gadda a Montale a Borges –, quasi a voler nobilitare componimenti che già di loro si legittimano eccome!

E, ciliegina sulla torta, una descrizione della forma: numero di quartine, i diversi tipi di rima e sillabazioni, figure retoriche usate, insomma l’armamentario del filologo puntuale e preparato, ma anche un tantino noioso.

Detto questo, si rileggono le canzoni di Guccini con piacere e tanta nostalgia, qualcosa si scopre sempre, ovviamente, perché l’autore è uno grande, colto, raffinato nell’uso delle immagini, capace di forti evocazioni emotive, attento alle sfumature, anche se, dobbiamo confessare, che la lettura accompagnata dalla voce dell’autore, come abbiamo fatto con l’aiuto di yuotube anche in più versioni e arrangiamenti, è tutto un altro leggere.

Perché quei testi vivono di musica, della voce sgranata di Guccini, della sua inconfondibile erre blesa. Sicché alla fine «riconoscere a queste canzoni una vita autonoma, soprattutto quando, depositate sulla pagina siano in grado di svelare con maggiore intensità la propria fisionomia letteraria», come fa Fenocchi, diventa un gioco abbastanza fine a se stesso, un’esercizio intellettualistico buono sicuramente a fare curriculum, che nulla toglie ma pochissimo aggiunge alla conoscenza di questo poeta di musica e parole che ha alimentato per anni l’immaginario di generazioni, affollato i palasport (indimenticabili i suoi concerti al Carnera di Udine dove è venuto più volte e che).

Una nota ancora: manca in questa antologia – crediamo non a caso, visto la poca “letterarietà” – forse la canzone più irriverente di Guccini, quell’“Avvelenata”, canzone sboccata e amara, spudoratamente autoironica, ma unica per immediatezza e autenticità. —





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