Grande Guerra, gli orfani dei morti e pure dei vivi: il Friuli e i concepiti nella violenza - 10

La guerra, come gli altri cavalieri dell’Apocalisse, produce morti e, di conseguenza, orfani.
Se tanti sono i caduti, molti sono gli orfani.
Quanti furono quelli della Provincia di Udine, vittime della Grande Guerra?
Da una comunicazione del Prefetto al Ministero dell’Interno, pubblicata da Il Lavoratore friulano nel 20 febbraio 1921, sappiamo che furono 13 mila 372, così distinti per origine sociale: figli orfani di contadini 6.903; di operai 6.025; di industriali e commercianti 182; di professionisti 262.
VERSO LA VITTORIA - 4 NOVEMBRE 1918
- La prima puntata: L'illusione di un conflitto breve e il racconto dei giorni cruciali
- La seconda puntata: Dopo Caporetto tutto fu requisito: animali, mais, vino, burro e formaggi
- La terza puntata: Il silenzio di ottomila campane: gli imperiali ne fecero cannoni
- La quarta puntata: Il contagio mortale della "spagnola": fu il contagio più grave dell'umanità
- La quinta puntata: A sud gli austriaci, a nord i tedeschi: cosí Otto von Below occupò Udine
- La sesta puntata: Con la fuga dei civili dopo Caporetto Firenze divenne capitale del Friuli
- La settima puntata: C'erano tesori da salvare, ma i friulani erano diffidenti verso i generali
- L'ottava puntata: Grande guerra, l’anno “dai todescs” provocò una drammatica carestia
- La nona puntata: Nel Friuli rimasto senza una lira proliferarono i buoni di cassa
I dati, proporzionali alla consistenza delle classi sociali friulane di quel tempo dimostrano che erano morti sui campi di battaglia o per cause di guerra anche alcuni interventisti, appartenenti alle classi più agiate.
Tutti i cinque figli del conte Antonino di Prampero, a esempio, finanziatore del periodico “Ora o mai” nel 1915, parteciparono alla guerra in divisa, e fra essi due furono i caduti: Bruno, combattente, e Bianca, crocerossina.
Ma la guerra si lasciò alle spalle anche un grande numero di “orfani dei vivi”, che mossero a compassione un grande friulano: monsignor Celso Costantini, custode della Basilica di Aquileia durante la guerra, amico di D’Annunzio e Ojetti, nunzio apostolico in Cina negli anni Venti, infine cardinale.
Ecco come lui stesso racconta l’episodio che quasi improvvisamente gli rivelò la vastità e la gravità del problema dei “figli della guerra”, concepiti e nati al di fuori del matrimonio.
«La sera del 2 dicembre 1918 si presentò in vescovado una donna, con la gronda tirata sugli occhi, e con un involto tra le braccia. Scoperse l’involto e mi mostrò un bambino. – Non è figlio di mio marito – disse piangendo. – Ora che il marito ritorna… Non potrebbe lei collocare il bambino in qualche orfanotrofio?
Il dramma di quella donna, il quesito che ella ingenuamente mi pose fecero sorgere in me l’idea di fondare nelle terre liberate l’Ospizio dei figli della guerra per salvaguardare gli innocenti e contribuire a ricomporre la pace famigliare». (Da “Foglie secche. Esperienze e memorie di un vecchio prete”).
I “figli della guerra” erano stati talvolta concepiti nella violenza dello stupro, talaltra per convenienza, cioè per ottenere da qualche militare un po’di cibo per la sopravvivenza.
Per capire bene la tragedia, bisogna ricordare che, paradossalmente, quei bambini non potevano essere giuridicamente riconosciuti come “orfani di guerra”, e quindi non avevano diritto alle provvidenze statali previste per i figli dei caduti.
Bisogna, infine, ricordare che, pur riconosciuti innocenti, erano considerati “intrusi” nelle famiglie.
Un vecchio, a esempio, trovava insopportabile il pianto del figlio naturale della nuora: «Penso che egli è figlio di colui che ha ucciso i miei due figli. Bisogna portarlo via».
Celso Costantini decise immediatamente la fondazione dell’Istituto San Filippo Neri per i “Figli della guerra”, che iniziò a funzionare nel Seminario di Portogruaro. Ottenne poi il riconoscimento di opera pia e il sussidio statale grazie a Luigi Luzzatti.
Nel 1923 l’ospizio fu trasferito a Castions di Zoppola e affidato alla cura di Giovanni, fratello di Celso e futuro vescovo di La Spezia.
Monsignor Celso, che aveva così creato il primo istituto in Europa per gli “orfani dei vivi” (la definizione è sua), scrisse testualmente: «In Francia si sono forse troppo preoccupati del fatto che accogliere in un istituto questi infelici contribuiva a designarli col marchio della loro triste origine. Noi abbiamo pensato, invece, che in un primo tempo conveniva risolvere d’urgenza il problema, liberando le famiglie dagli “intrusi”, e salvaguardando la loro esistenza. In un secondo tempo penseremo a distribuire i poveri bambini, di modo che vadano confusi alle correnti di tutti i bambini derelitti». (A questo provvide il fratello da La Spezia).
Gli “orfani dei vivi” trovarono rifugio a Castions di Zoppola; gli orfani dei morti a Udine, Rubignacco di Cividale e altrove. –
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