Grande Guerra e 007: 855 piccioni viaggiatori in prima linea a spiare il nemico

Cadeddu e Gaspari raccontano l’intelligence nel 1918. Le imprese di Arbeno d’Attimis sull’idrovolante a Marano

Adesso ci sono i droni, ma una volta c’erano gli umili e infaticabili piccioni viaggiatori, protagonisti silenziosi in tante vicende belliche, alle quali parteciparono inconsapevolmente, solo perché la natura li ha forniti di un prodigioso senso dell’orientamento, quello che li fa tornare alla colombaia partendo da centinaia di chilometri. Un vero mistero il loro, mai chiarito del tutto, ma che li rese utilissimi durante la Grande Guerra quando gli eserciti se ne servirono in abbondanza.

Ultimo a farlo quello italiano che li “arruolò” dal 1917 e infatti fu un piccione, tornando nella sua casetta di Udine dalla zona di Caporetto, a portare invano notizie che potevano mettere sul chi va là il nostro comando generale. I messaggi erano nascosti in contenitori legati alle zampette, però il piccione poteva essere dotato (proprio da drone) di micro macchine fotografiche per le riprese dall’alto.

Tornano ora alla ribalta leggendo la storia dei primi 007 visti all’opera un secolo fa, come accade scorrendo il libro intitolato “Lo spionaggio italiano nel 1918”, di cui sono autori Lorenzo Cadeddu e Paolo Gaspari, che ne è anche editore continuando così l’opera di ricerca e scoperta dedicata agli aspetti meno noti del conflitto. Il libro spiega in particolare come mosse i primi passi l’ufficio informazioni della nostra Terza amata, formatosi sotto la guida del colonnello Ercole Smaniotto, un abile livornese che sapeva gestire bene con intelligenza e originalità i suoi uomini, e non solo.

Fu infatti lui a perfezionare le varie tecniche per le prime intercettazioni telefoniche o per sviluppare la ricognizione aerea e l’aerofotogrammetria, tanto che alla sua opera è in parte attribuibile l’esito favorevole delle battaglie del Solstizio e di Vittorio Veneto, anche se Smaniotto non potè vederne gli effetti perché morì il 20 ottobre 1918, dunque a un passo dalla vittoria, a causa della febbre spagnola. Il suo merito principale fu probabilmente di aver amalgamato metodi moderni (come la rete di posti telefonici d’ascolto, con sede centrale a Gradisca e affidata al capitano Porta, per intercettare le comunicazioni tra i comandi austriaci, prevedendone così le mosse) e vecchi trucchi del mestiere.

Davvero curioso quello che utilizzava le lenzuola messe ad asciugare sul terreno secondo un codice concordato e comprensibile ai piloti italiani che sorvolavano la zona. Sistema che poteva trasmettere solo messaggi parziali, ma poi veniva completato e integrato quando arrivava dal fronte il provvidenziale piccione, sempre al ligio al suo dovere. Basti sapere che su 855 in servizio nell’armata solo 17 non fecero mai ritorno.

Per avere le informazioni necessarie da spedire, bisognava comunque mandare spie abili e coraggiose oltre le linee nemiche a carpire notizie e sensazioni. Il libro di Cadeddu e Gaspari racconta alcune storie, come quella famosa di Arbeno d’Attimis e Max di Montegnacco, nobiluomini friulani di Attimis e San Giorgio di Nogaro, intrepidi agenti segreti nei giorni caldi a fine guerra.

Una vera epopea la loro, tutta da leggere e conoscere, dal momento in cui vennero portati da un idrovolante nella laguna di Marano (con tante gabbiette per piccioni al seguito) a quando riuscirono a raggiungere Udine, occupata dagli austriaci, dove si incontravano con i cospiratori nell’osteria Alla Ghiacciaia di via Zanon.

Tra loro c’era l’assessore comunale Bindo Chiurlo, docente e poeta, che affidò ai due 007 il comando della guardia civica, capace di far insorgere la città ancora prima dell’arrivo il 3 novembre del Savoia cavalleria e della pattuglia guidata dal tenente Baragiola. Come ricorda Paolo Gaspari nel libro, Udine fu così l’unica città a liberarsi con le proprie forze e avrebbe meritato per questo la medaglia d’oro al valor militare. Ma nessuno lo sa.


 

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto