Grande guerra, così ogni paese commemorò i suoi caduti al fronte

gianfranco ellero
Viaggiando in Italia e al di là delle Alpi si scoprono monumenti ai caduti anche in sperduti villaggi: il monumento, retorico, celebrativo, simbolistico, mitizzante era lo strumento che permetteva di metabolizzare il dolore altrimenti inesprimibile prodotto dalla Grande Guerra. Era però anche uno strumento di mistificazione, perché trasformava in eroi milioni di povere vittime, che avevano soltanto subito la guerra. Ma non basta. La religione cristiana poteva offrire conforto ai sopravvissuti, e allora i monumenti assunsero molto spesso sembianze religiose, non solo nei cimiteri di guerra (le croci sulle tombe), non casualmente chiamati sacrari (si pensi a quello di Redipuglia, sormontato da tre grandi croci come il Gòlgota), ma anche in veri e propri templi, come l’Ossario di Udine e nelle lapidi murate su edifici religiosi, sui campanili di Godia, Beivars e Barazzetto, ad esempio, o all’interno delle chiese, come a Santa Maria dei Battuti a San Vito al Tagliamento.
Le cerimonie di commemorazione si svolgevano quasi sempre nelle chiese, infatti, e per immergerci in quel clima possiamo leggere su “La Patria del Friuli” del 7 giugno 1919, un esempio fra tanti, due stralci della corrispondenza da Santa Margherita del Gruagno: nella chiesa, ai quattro lati del catafalco, “le armi, inerti, ricordavano una virtù che non si spegnerà mai; mentre in un’armonia sublime, davano agli eroi il tributo d’onore della Patria unitamente a quello della Religione”. “Non c’è antagonismo pertanto fra Religione e Patria – disse l’officiante, don Costantino Gentilini – e l’accusa di antipatriottismo, lanciata a tanti buoni cattolici, rimane e rimarrà sempre una pura calunnia”. Si alimentò così il sincretismo fra cristianesimo e militarismo in Italia.
Prima della Grande Guerra i monumenti erano rari e generici, riservati di solito ai capi o a una campagna militare (come la Colonna di Traiano a Roma, l’Arc de Trionphe a Parigi, la colonna di Nelson a Trafalgar Square): dopo la Grande Guerra, invece, i monumenti riportavano i nomi dei caduti, paese per paese. E per le famiglie doveva essere un vanto e un onore l’aver dato alla patria un eroe: giusto e doveroso, quindi, incidere il suo nome in un luogo pubblico.
C’era fame, carestia, ma si riusciva sempre a trovare i soldi per erigere monumenti anche costosi in piccoli villaggi. E Santa Maria di Sclaunicco ebbe il suo, primo in Friuli, terzo in Italia, già nel novembre del 1919. Poteva essere sufficiente un monumento per Comune, ma in realtà ce ne fu uno per frazione. Se ne contano cinque, ad esempio, nel comune di Lusevera: Capoluogo, Pradielis, Cesariis, Musi e Villanova delle Grotte. Poi qualcuno inventò i Parchi della Rimembranza (ogni albero dedicato a un caduto) e altri proposero, con successo, gli asili-monumento.
La Città di Udine è piena di monumenti ai caduti (una trentina), ma ogni frazione (Cussignacco, Cormôr, Rizzi, Baldasseria...) ne eresse almeno uno per i suoi morti in guerra. Anche le vie della città furono intitolate a uomini e luoghi della Grande Guerra: Diaz, Cantore, Gregorutti, Ragazzi del 99, Monte Nero, Pal Piccolo, Pal Grande, Sabotino, Sei Busi, Hermada, Monte Grappa, Isonzo, Piave, Vittorio Veneto, eccetera.
Abbiamo citato Udine come paradigma di una declinazione, che si ripete a Gorizia, Pordenone e altrove. (Ma oggi chi abita in via Monte Sei Busi sa o immagina il significato del toponimo?). Quando inziò a Udine la corsa ai monumenti?
Il 20 febbraio 1919 “La Patria del Friuli” scrisse che la Lega studentesca italiana, che aveva sede nel palazzo del R. Liceo (lo Stellini), aveva fissato per il 18 giugno l’inaugurazione di una lapide in onore di Francesco Baracca, “ardito del cielo che fu coraggioso difensore per tre anni della nostra città”. I cittadini erano invitati a contribuire alla spesa e a fornire dati e notizie per l’opuscolo commemorativo degli studenti udinesi caduti.
Il 3 giugno il giornale registra la delibera della sezione Combattenti di Buja che decide di erigere un segno perenne in memoria dei caduti in località da stabilirsi. Il 4 giugno scrive che la Società Operaia di Ampezzo ha avviato una sottoscrizione per erigere il monumento ai caduti del comune. Il progetto del professor Luigi Emiliani era già al vaglio del comitato promotore, composto dal commissario prefettizio, dal parroco, dal presidente dell’Operaia e da cittadini.—
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