Gli ultimi giorni del duce, dalle sconfitte militari alla caduta di un regime
Il 25 luglio di 80 anni fa il Gran consiglio del fascismo ne decretò la deposizione . Pochi giorni prima aveva incontrato Adolf Hitler. Non chiese un’uscita politica dalla guerra

Il 20 luglio 1943, cinque giorni prima della sua caduta, Benito Mussolini tornava a Roma da Belluno, dove aveva incontrato Adolf Hitler e una squadra ridotta di suoi generali e strateghi.
La trasferta
Il duce guidava il suo aereo personale e aveva potuto vedere dall’alto i quartieri ancora fumanti della capitale che erano stati colpiti dal primo bombardamento alleato su Roma. Al führer Mussolini non era stato in grado di avanzare la richiesta che da più parti gli era stata suggerita, quella cioè di trovare un’uscita politica alla guerra, soprattutto ora che da dieci giorni le truppe anglo-americane erano sbarcate nel territorio dell’Asse, in Sicilia, e dove si stavano già prendendo Palermo.
Nulla era più emblematico di quell’attacco dei bombardieri alleati. Al duce malato, che da mesi soffriva di dolori addominali frutto di una duodenite o, molti temevano, di un cancro, dovette mostrare chiaramente che il fascismo era vulnerabile nella sua roccaforte e che – ma questo risultava chiaro a molti e a gran parte della popolazione italiana – la guerra era ormai persa. Pochi giorni dopo, il 25 luglio 1943, si tenne la seduta del Gran Consiglio che causò la fine del regime mussoliniano.
Gli interrogativi
La storia di quelle ultime ore del governo fascista, che era sorto nel 1922 con la marcia su Roma e che si era fatto dittatura, sono state raccontate molte volte, anche perché mantengono una loro incomprensibilità di fondo: come poté morire così burocraticamente un regime che aveva dominato con tanta forza e molto consenso?
Come mai Mussolini non reagì per evitare il peggio con quella energia che tante altre volte aveva dimostrato? Fu, il 25 luglio 1943, una congiura di palazzo o una strada segnata, alla quale Mussolini si rassegnò consapevolmente? Provare a comprendere il 25 luglio 1943 significa innanzitutto riflettere sul fatto che la guerra, per l’Italia, si era sempre messa, e da subito sul piano della sconfitta.
Dalla fallimentare spedizione greca all’abborracciata campagna russa si erano confermati i peggiori sospetti che avevano spinto Mussolini a ritardare l’ingresso in guerra al fianco di Hitler, vale a dire la sostanziale impreparazione del Paese, e della sua struttura produttiva, economica e militare, a sostenere un conflitto moderno.
La crisi
Alle sconfitte in Nordafrica nel novembre 1942 era seguita la caduta di Tunisi in mano alleata, il 13 maggio 1943: significò avere il nemico alle porte, e infatti l’11 giugno cadde il primo lembo d’Italia, Pantelleria.
Con l’invasione anglo-americana alle viste, l’ennesima spavalderia del duce non convinse nessuno: il 24 giugno, al Direttorio del Pnf, Mussolini promise che gli alleati, qualora avessero toccato le sacre sponde, sarebbero stati inchiodati sul bagnasciuga. Intendeva, il duce, la battigia, il bagnasciuga essendo tutt’altra cosa.
L’errore sarebbe tornato alla mente quando gli alleati sbarcarono senza quasi trovare resistenza. La crisi del regime non era solo militare, era anche interna. Nel febbraio Mussolini aveva effettuato un rimpasto del governo così profondo da indurre il sospetto che non si fidasse più di alcuno dei suoi uomini.
Parte di quelli che furono allora rimossi rimanevano peraltro nel Gran Consiglio del Fascismo, l’organo di partito che era stato elevato a organo costituzionale in quanto massimo decisore dell’indirizzo politico dello Stato, e che sarebbe metaforicamente diventato per Mussolini ciò che la Curia di Pompeo fu per Cesare.
Fu nel Gran Consiglio del fascismo che, nella notte tra 24 e 25 luglio 1943, con una semplice deliberazione – chiamata impropriamente “ordine del giorno” – a prima firma di Dino Grandi ma con 19 voti a favore, Mussolini fu sollevato dalla carica di capo del governo.
I documenti
Come per tutti i grandi avvenimenti storici, anche per il 25 luglio è stata recuperata nel corso del tempo una tale massa di documenti per cui si conosce lo svolgimento di quel fatto da una moltitudine di punti di vista. Per esempio nelle voci che da mesi si rincorrevano su una possibile congiura antimussoliniana, o sulla possibilità che, riuniti nella sala del Gran Consiglio, i disfattisti venissero arrestati sul posto.
Si conoscono le diverse posizioni politiche, ad esempio quella del genero del duce, Galeazzo Ciano, tra i più, e di più lunga data, ostili all’alleanza con Hitler, e che si vociferava potesse succedergli per un nuovo corso del fascismo, sganciato dall’Asse.
La posizione poi anche degli uomini storicamente più vicini a Mussolini, come il triumviro De Bono, protagonista nel ’22 e che aveva però ormai abbandonato, anche psicologicamente, il duce. Solo le dimissioni di Mussolini nelle mani del re, il 22 luglio, quando il duce gli riferì dell’incontro di Belluno con Hitler, avrebbero potuto bloccare la presentazione dell’ordine del giorno Grandi. Queste però non arrivarono, mentre giungeva invece notizia che gli alleati dilagavano in Sicilia.
La seduta
Nella Sala del pappagallo dove il Consiglio si riunì – la farsa riesce sempre a mischiarsi alla tragedia – fu Mussolini a prendere per primo la parola, e il suo discorso fu, sorprendentemente per tutti, una sorta di autoaccusa.
Il nemico è sul suolo della patria, sostenne il duce, lo spirito della popolazione è ai minimi storici e tutto gioca contro di noi. Ma sbaglia chi crede di tirarsene fuori, proseguì, minacciando implicitamente che, se fosse morto Sansone, con lui sarebbero morti anche tutti i filistei seduti al grande tavolo a U della sala.
Dino Grandi espose, a quel punto, il suo ordine del giorno: Mussolini doveva restituire le cariche militari e passare il comando della guerra al re. Era, di fatto, una chiamata alla responsabilità di Casa Savoia, refrattaria fino a quel momento a giocare un ruolo qualsiasi nell’avvitarsi del conflitto.
A sostegno di Grandi intervenne anche Ciano, ribadendo che se “pacta sunt servanda” i primi a non averli rispettati erano stati i tedeschi. Poi, inspiegabilmente, Mussolini fece leggere la richiesta a lui rivolta dal segretario del partito fascista di abbandonare le cariche militari.
Fu poi ancora una volta Mussolini a far votare, prima degli altri che erano stati presentati e che erano di indirizzo opposto, la proposta di Grandi, che chiedeva che il duce fosse sgravato dal comando militare. L’ordine del giorno raccolse la maggioranza dei voti. Alle 2.40 la seduta fu tolta, l’aula sgombrata. Mussolini telefonò a Claretta, e le comunicò i suoi più foschi pensieri.
L’epilogo
Il giorno dopo il re, il quale era direttamente chiamato in campo dalla decisione del Gran Consiglio, fece sapere a Mussolini che lo avrebbe ricevuto. Incontratolo alle 17, Vittorio Emanuele III gli comunicò che al suo posto era stato nominato capo del governo il maresciallo Badoglio.
All’uscita dalla residenza reale fu quindi avvicinato da degli agenti che, con la scusa di garantirne la sicurezza, in realtà lo trasportarono in una caserma di pubblica sicurezza dove fu messo agli arresti. Il re lo accusava di tradimento, di aver portato l’Italia in guerra, della disfatta della Russia e di tutta una serie di atti compiuti evidentemente mentre il padre della patria doveva esser stato distratto.
Gli storici
Nel capitolo “Un crollo senza gloria tra molti misteri” del suo libro Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio (Il Mulino 2021), Paolo Cacace riepiloga tutti i temi ancora aperti sulla svolta epocale del 25 luglio.
Dal fatto se sia stato un golpe militare, gestito per portare Badoglio al potere e individuare così l’“exit strategy” dalla guerra, come è opinione di molti, all’incredulità di Mussolini sul reale significato della decisione del Gran Consiglio (la mattina egli era regolarmente alla sua scrivania) oppure la sua sostanziale acquiescenza all’eutanasia del regime, che fu anzi da lui in qualche modo pilotata. Questa tesi è sostenuta dal più importante storico del fascismo, Emilio Gentile, in 25 luglio 1943, (Laterza, 2020).
Altro grande punto di domanda è la figura di Dino Grandi (1895-1988), uomo di governo del fascismo prima, ideatore e attore della spallata decisiva al regime poi, quindi esule in Portogallo fino al 1948. Rientrato in seguito in Italia, non ricoprì alcun ruolo politico, anche se la Repubblica gli deve molto.
Due libri anche su di lui: la biografia di Paolo Nello (Dino Grandi, Il Mulino 2003) e il suo memoriale, pubblicato per cura di Renzo De Felice nel 1983 in 25 luglio. Quarant’anni dopo, con una serie di documenti fondamentali (Il Mulino).
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