Gianrico Tedeschi: «Io nel lager di Sandbostel salvato dal sogno del teatro»

di Michele Di Luigi
Parlare di vecchiaia e dire invece di questi nostri tempi malandati, del loro assoluto vuoto di memoria e prospettive e farlo con una parodia, uno spettacolo bizzarro e imprevedibile che chiama in causa Beckett e l’avanspettacolo, riflessioni sul vivere e morire e disquisizioni terra terra sulle funzioni quotidiane del corpo: è “Dipartita finale”. L’ha scritto diretto e interpretato quel grande istrione che è Franco Branciaroli, al Rossetti di Trieste fino a domenica. In scena tre vecchi clochard Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai e Massimo Donadoni, che l’arrivo di un quarto balordo, incapucciato di nero e con tanto di falce (lo stesso Branciaroli che è la morte che finalmente muore causa le botte che il piú vecchio gli proprina), costringe a fare i conti con ciò che oggi facciamo di tutto per rimuovere, dalla vecchiaia alla malattia, dalla morte alle domande ultime sul senso del nostro stare al mondo, che vorremmo eterno. Dei tre il piú attivo, arzillo e scatenato, è inaspettatamente Tedeschi, che il suo compagno, un Ugo Pagliai nelle vesti di un travestito, inchiodato al letto, copre di angherie e costringe a sgambettare per il palcoscenico nell’attesa della fine. «Franco – racconta Tedeschi – mi ha fatto un grande regalo con questo personaggio. Mi ha fatto prendere in moglie Pagliai, scherza e poi a 96 anni (il prossimo 20 aprile) posso ben dire di avere le credenziali a posto per parlare della fine, della sua attesa». E a vederlo scattante come un giovanotto – corre, si alza, si piega, sposta Pagliai in carrozzina, fa addirittura un ballo, puntualmente applaudito dal pubblico letteralmente catturato dalla sua vitalità –, ti viene da chiedere il segreto. «Il segreto? il teatro, il teatro», chiarisce. Teatro, scoperto e praticato per la prima volta nel campo di concentramento di Sandbostel: un’esperienza che «fu durissima e della quale ancora oggi preferisco non parlare. Superai la prova grazie a incontri meravigliosi: con Lazzati, Giannino Guareschi, Novello, Natta, Rebora... Anche Martino Scovacricchi (sottosegretario alla Difesa, parlamentare eletto per lunghi anni in Friuli nel Psdi, ndr.). E per sopravvivere sorse una sorta di organizzazione culturale. Lí rappresentai l’ “Enrico IV” per la prima volta». E alla domanda se, secondo lui, in Italia oggi si tenga conto di quella storia da cui poi è nata la Repubblica, risponde con un certo scoramento: «Non sono stati mai fatti i conti, nel Dopoguerra prevalse un bisogno di riappacificazione che favorí un processo di rimozione. Ultimamente si sta facendo qualche patriottico sforzo di obiettività, ma gli italiani sono un popolo tremendamente individualista: perché si “uniscano a coorte”, deve succedere qualcosa di tragico». Anni e anni di palcoscenico, ma anche di cinema e tv, condivisi con i piú grandi, attori e registi. Che cosa resta? «Il mestiere dell’attore è cosí: fra i tanti doni che porta, insegna il distacco, una lezione dura da apprendere. Sul palco si formano famiglie, ci si penetra nell’intimo, ci si affeziona... e poi via, ciascuno per la sua strada». A chiedergli dei giovani e del futuro per i giovani, Tedeschi dice di sentire «tenerezza per loro. Noi vecchi . siamo doppiamente colpevoli nei loro confronti: prima li abbiamo educati nella bambagia, poi gli abbiamo consegnato un mondo da ricostruire. Le vecchie generazioni dovrebbero fargli posto, eccetto qualche eccezione, dovuta al merito». E poi, quasi in linea con lo spettacolo che rivendica, a fronte di tanta tecnologia materialistica impegnata a prolungare la vita, il messaggio di salvezza evangelico, ammette che a sorreggerlo lunga tutta l’esistenza, che «vorrebbe come Molière, dipartita in scena», è stata la fede. «Io sono credente e cattolico. Difronte alle apocalissi della civiltà ho provato dolore, impotenza, compassione. Mai disperazione. Perché, come succede con i due baraboni dello spettacolo che davanti allo sfascio dell’universo ne invocano una rapida fine, ma poi si tirano indietro, la voglia di vivere è sempre piú forte. E la bellezza, non quella di plastica propinata dalle mode, è l’ultima barriera contro la fine».
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