Floramo racconta le donne della Carnia: non dicono “signorsì” vincono sempre loro

Lo scrittore a Tolmezzo ha intrecciato i profili nel corso degli anni. «Un ruolo lontano dall’immagine che ci viene sempre proposta»

Piltrude, la nobile longobarda, in Carnia creò una riserva di libertà. Le native della valle di Gorto misero in riga i veneziani che saccheggiavano i boschi per rafforzare la Serenissima, nel Settecento la tolmezzina Angelina Ianesi, Zanetta Dei Giudici di Cercivento e Maddalena de Crignis, pure lei di Tolmezzo, intuirono che la matematica e l’economia non potevano essere prerogativa maschile.

E mentre le donne di Forni Avoltri lottavano per i loro diritti in Francia, la moglie dell’anarchico Giovanni Casale si batteva per riportare la salma del marito in patria. È grazie a loro se ancora oggi le carniche stentano a chinare la testa. Intrecciando le biografie antiche, lo scrittore Angelo Floramo, alla convention dall’ente Friuli nel mondo, ha ricostruito il ruolo della donna carnica nella comunità. «Un ruolo lontano dall’immagine melensa e vuota di significato che ci viene sempre proposta della donna che aspetta tremebonda il ritorno dell’emigrante».

Nel racconto di Floramo tutto inizia con Piltrude, «la madre di Anto, Erfone e Marco, i tre fondatori dell’abazia di Sesto al Reghena. Chiusa dai figli nel convento di Salt di Povoletto, Piltrude «volle che venisse identificato un pascolo in Carnia che prese il nome di Prat da dumblas, il prato delle vergini, da cui deriva la toponomastica di Pradumbli (Prato Carnico), perché quel pascolo lì fosse una riserva di libertà. Sappiamo – queste le parole di Floramo – quanto non esista libertà se viene a mancare l’autodeterminazione economica e l’intuizione di questa donna era che tutto ciò che si sarebbe prodotto in quel pascolo avrebbe dovuto confluire ai poveri di Cividale dove sarebbe nato il monastero di Santa Maria in valle.

Era un’organizzazione puntigliosa delle risorse agro-silvo-pastorale di cui la Carnia continua a essere consapevole produttrice». Quell’intuizione segnò la storia delle donne della Carnia che dal Cinquecento al Seicento – ha proseguito lo scrittore – «si fecero interpreti dell’autogestione del territorio dal basso, avevano la possibilità di esprimere il parere nei consessi dei capifamiglia. Nel 1719 nell’ambito viciniale di Gorto, vista l’assenza degli uomini che erano pal mont, su 164 capifamiglia 93 erano donne: avevano la maggioranza assoluta tanto che i luogotenenti veneti dicevano “meglio avere a che fare con il turco e i suoi soldati che con le donne della Carnia che decidono in vicinia”».

Erano gli anni in cui Angelina Ianesi scrisse il “Colloquio sopra gli studi delle donne”, un'opera che Floramo vorrebbe vedere rieditata la pubblicazione settecentesca. «Angelina si era resa conto che in un contesto spesso disertato dai maschi in giro per lavoro, era necessario che le donne sapessero studiare e disse: “mica le sette arti liberali quelle le lasciamo a quei bolsi di intellettuali che si dilettano di poesia, le donne devono sapere di economia, di medicina, di agronomia, di commercio e se possono farlo in lingua friulana è preferibile”. Floramo non considera casuale le eredità lasciate da Zanetta Dei Giudici di Cercivento nel 1783 o Maddalena De Crignis tolmezzina nel1804 per l’educazione delle fanciulle.

Quei capitali non dovevano servire per renderle obbedienti al maschio, ma per insegnare loro come imporsi «ed essere in grado di creare qualche cosa di nuovo». Nel Novecento anche le emigranti friulane si avvicinarono ai socialisti, erano, ha precisato Floramo, «le operaie del tessile che, nella zona svizzera di San Gallo, scrivevano articoli vibranti contro l'ingiustizia del clero, la sperequazione sociale, l’atteggiamento borghese all’interno delle famiglie che avrebbero voluto la donna sottomessa. Dissero “no, noi percepiamo uno stipendio e possiamo autodeterminarci, tornando a casa abbiamo la possibilità di crearci la nostra dote e di non sentire qual è il parere di nostro padre per capire chi dobbiamo sposare”».

Speravano anche che le loro sorelle di Francia «lottando unite – così recita uno di questi articoli – riescano ad evitare la prepotenza del capitale, l’ipocrisia del clero e soprattutto sfuggire alla bieca violenza del maschio che le punisce in fabbrica quanto in casa». In Francia alcune operaie friulane erano state licenziate perché avevano deciso di scioperare. E le carniche di Forni Avoltri si autotassarono mandando ciascuna lira 1 perché queste giovani operaie avessero «la possibilità di superare il momento della negazione del lavoro riuscendo a credere ancora in un mondo migliore».

A questa radice Floramo ha collegato pure il funerale anarchico svoltosi in val Pesarina nel 1933. La moglie di Giovanni Casale, noto anarchico ucciso per mano fascista in Francia, era di Paluzza e pretese che la salma fosse sepolta in Carnia. «Il prete chiuse la porta della chiesa, ma la donna di Paluzza disse “non avevamo intenzione di entrare”, il prete negò il seppellimento nel cimitero e la donna di Paluzza disse “c’è tanta terra in Carnia”, venne sepolto in terra sconsacrata con una cerimonia laica che ancora oggi conferma quanto questa terra sia poco incline a chinare la testa anche nei momenti più pericolosi».

Da qui Floramo ha fatto un balzo in avanti di 11 anni per arrivare alla Repubblica partigiana di Carnia e ricordare che da queste parti le donne votarono due anni prima che nel resto dell’Italia. L’ha fatto per rendere merito alle «figlie e alle nipoti di quelle donne che per 200 anni erano abituate a non dire “signor sì, ma a essere consapevoli che se la donna ha il potere di dare la vita è come la terra: la puoi recintare, ma alla fine vince sempre lei. Onore all’ingegno della donne della Carnia».

 

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto