Ferdinando Vicentini Orgnani: «Ho girato in Bolivia, mi credevano una spia»

SPILIMBERGO. Sarebbe allettante farci una fiction sul backstage del documentario Un minuto de silencio. Nove viaggi boliviani per dare più che un’idea filmica di un Paese quand’era in mano all’ex presidente Sanchez de Lozada, costretto alla fuga dopo la rivolta del 2003, e la conseguente elezione di Evo Morales, il primo capo indigeno, all’opposizione al tempo della rivolta. Roba bollente per l’America Latina.
«La polizia credeva fossi un agente della Cia» - racconta il regista spilimberghese Ferdinando Vicentini Orgnani, con in bacheca un buon bottino di cinema di finzione e di vita vera raccolta per il mondo.
«In realtà il mio sguardo troppo curioso e ficcanaso lasciava a più di un’interpretazione. Sono terre sospettose. Mi sono sempre spacciato per turista. Una volta, accompagnato dal direttore della fotografia, fra l’altro un pordenonese, tale Renato Favro, sono stato costretto a farlo passare per il mio compagno. Una coppia gay in giro per la Bolivia a caccia di curiosità da mostrare agli amici nel salotto buono. Ci sono cascati».
Il trip di imbastire un’operina ben poco romantica, anzi, cruda, su una certa storia scomoda di La Paz e dintorni, sale nella mente di Vicentini Orgnani durante una visita all’amico Rade Serbedzija, divo croato naturalizzato americano (molti i colossal hollywoodiani con la sua faccia).
«Scopro che la moglie di Rade è la nipote dell’ex presidente Gonzalo, detto Goni dagli amici e El gringo dai nemici. “Se vuoi ti metto in contatto io con lo zio”, mi dice. Avrei mai potuto rinunciare a questa ghiottoneria?».
Lo sa Ferdinando, con i documentari non si vive alla grande. E non sempre è facile farsi vedere in sala. «La mia serata americana è stata favorita dall’ultimo film prodotto da George Clooney, Our brand in crisis, totalmente focalizzato sull’elezione del nuovo presidente boliviano. Un prodotto tira l’altro e siam felici in due».
E il New York Times molla la recensione, assai favorevole, fra l’altro. Il che non guasta. «Altre testate statunitensi ci hanno seguito, e quando la voce circola, puoi anche tranquillizzarti». Il regista le definisce uscite tecniche, «servono a darti visibilità e, volendo, a metterti in scia di Golden Globe e Oscar. Vuoi mai».
Certo che Gonzalo Sanchez de Lozada qualche buona cosa la imbastì, negli anni Cinquanta e seguenti, ben prima di appoggiare le terga sulla sedia presidenziale.
«La Polonia degli Ottanta pigliò il modello Goni per la lotta all’inflazione. La storia lo ha condannato, ma in verità lui, al tempo delle sommosse, mandò l’esercito a sedare i ribelli, tutto qui. Non dico sia stato un santo. Chiunque arrivato lassù non lo è. Nemmeno trattato alla stregua di un dittatore, però. Lui fuggì in America con la famiglia e ancora qui Gonzalo sta. Semmai volesse tornare in Bolivia lo processerebbero. E i boliviani non amano i trattamenti gentili, credimi».
Amano nettamente di più le loro piantine di coca. «C’è un giro di tre miliardi l’anno. Dopo il crollo del prezzo del gas, una delle ragioni primarie di ottima sopravvivenza, lo smercio di foglie ha arricchito oltre sessanta mila famiglie. E pure la borghesia sana non se la passa male».
Nove viaggi, dicevamo. «Quando Un minuto di silencio fu presentato a La Paz, il mio amico giornalista mi fermò: «È meglio che non vieni qui. Salvati la cabeza».
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