Felicino, il lucherino esule

Un bambino trova un batuffolo di piume arruffate in un cimitero semi abbandonato in Istria Bocconcini teneri, semini di erbe e lattuga e briciole di pane... E il piccolo volatile si riprende 

GIUSEPPE MARIUZ

Non amo i gatti. Mi ribatterete quasi offesi che il gatto è un animale elegante, flessuoso, agile, tenero, affettuoso, sornione, intelligente, coccolone e allo stesso tempo autonomo, fiero e non servile. Tutto vero, solo che per sua natura il gatto è un predatore e, tra le sue preferenze alimentari, ci sono gli uccellini. E io sto con loro.

Il perché della mia scelta risale agli anni dell’infanzia. La mia famiglia è istriana. Mio padre, invero, già da bambino seguì i suoi a Trieste, dove poté diplomarsi nel dopoguerra. I miei nonni materni rimasero invece abbarbicati alla loro magra terra e alla casa di pietra sul mare, ma dopo gli accordi del 1954, quando fu chiaro che il loro paese restava in Jugoslavia, presero la dolorosa via dell’esilio. Persero tutto e, una volta passato il confine, furono dirottati al campo profughi di Padriciano, tra capannoni di lamiera roventi d’estate e gelidi d’inverno. Il giovane maestro Vesnaver, mio padre, che alla prima nomina insegnava in quella scuola disagiata di periferia, conobbe lì mia madre e nel giro di qualche anno si sposarono ed ebbero una figlia, me.

La terra d’Istria e il suo mare rimanevano però nel loro cuore, specie a mia madre. Così, appena terminate le scuole, mio padre affittava per l’intera estate una stanza con cucina di una vecchia casa di parenti rimasti sulla costa, dov’era possibile respirare in un tutt’uno salsedine, resine, profumi di fiori ed erbe aromatiche, fragranze di umili cucine. Il confine italo-jugoslavo era ancora blindato ma noi avevamo come triestini la prepusniza, ovvero un lasciapassare per tutta la ex Zona B che arrivava fino al Quieto. Partivamo con la nostra Renault Dauphine di seconda mano stracarica per rientrare solo alla fine di settembre. Furono estati indimenticabili. I sapori del pane fresco cotto nel forno di casa, del pesce appena colto all’amo e arrostito all’aperto, dei crostacei rubati agli scogli, dei pomodori e delle cipolle dell’orto; i tuffi e le nuotate con la coetanea Zdenka, il nostro perlustrare casolari e stanze deserti, il rincorrerci lungo i viottoli tra le masere, i vecchi muretti a secco costruiti per delimitare i confini e togliere pietre al prato. Imparai pian piano a distinguere il volo e il canto degli uccelli, non solo dei più comuni come i gabbiani, i passeri e i merli: le allodole che si libravano al primo mattino e poi le cince, le capinere, i cardellini, i lucherini, i fringuelli, gli usignoli dalle ineguagliabili variazioni canore, l’inquietante cuculo sino alle lugubri civette e agli assioli nella notte.

Poco discosto dal piccolo borgo, c’era il cimitero semi abbandonato a seguito dell’esodo. I tronchi e le radici degli alberi stavano inesorabilmente prendendo il sopravvento, sommuovendo le povere tombe di pietra e le croci. Era un paradiso per la nidificazione degli uccelli, che vi trovavano pace e accoglienza, come era stato per i defunti. Fu lì che un mattino, avevo già sette anni e appena concluso il primo anno di scuola, colsi a terra un batuffolo di piume arruffate. Avvertivo un pigolio di aiuto appena percettibile. Lo colsi delicatamente e poi avvolgendolo fra le palme delle mani mi precipitai a casa di corsa. Ricordo ancora l’espressione afflitta di mia madre: cercava di prepararmi al peggio. Avrebbe tentato ogni cura, ma difficilmente sarebbe sopravvissuto.

Sopravvisse invece, grazie alle cure congiunte di tutta la famiglia. Cercavamo bocconcini teneri e sostanziosi: semini di erbe prative e lattuga, pidocchi delle rose ed altri insetti, perfino briciole di pesce e di uovo. Una predilezione erano gli ossi di seppia, che picchiettava fino a bucarli. Ero tutta indaffarata per lui, fino a dimenticare le corse e le nuotate per non abbandonarlo. Occupava il mio ultimo pensiero prima di addormentarmi e il primo al risveglio. Intorno ai due mesi, oltre a dimostrare un crescente vigore e a esercitarsi nel canto, ebbe una mutazione del piumaggio, che si colorò di tinte stupende ove predominavano il verde e il giallo a varie intensità, con striature di avorio, grigio, bruno e una bella testa nera lucente. Papà e mamma convennero che si trattava di un lucherino maschio e, dato che dava segni di allegria e buonumore, io proposi di chiamarlo Felicino.

Felicino era ancora privo di una casa propria. Fino a quel momento, era vissuto libero in cucina. Ma dovevamo prevenire i pericoli, serrando porte e finestre o tenendolo provvisoriamente rinchiuso nella vetrina. Nemici dichiarati erano ovviamente i gatti. Quelli del borgo si cibavano coi resti di pesce che abbondava e coi topolini di campagna, pure numerosi. Ma non solo. Un giorno, avevo assistito con raccapriccio alla scena di un gatto che giocava cinicamente con un uccellino catturato, fingendo di liberarlo per poi riprenderlo, più volte e fino all’esalazione del suo ultimo respiro. Il gatto era così pasciuto da disdegnare di cibarsi, tranne qualche morso di assaggio nella carne più succulenta. A terra, era rimasto il corpicino dilaniato tra le piume intrise di sangue.

Con la Dauphine ci recammo dunque al paese più vicino, Umago, e comperammo la più grande gabbia in vendita, in un negozio dove potevi trovare, oltre a quadri del maresciallo Tito che abbondavano ovunque, merce disparata, fra cui mangime per volatili. Felicino sembrò gradire l’idea. Dalla sua nuova residenza, appesa in alto nella cucina, si esibiva in evoluzioni acrobatiche, cinguettava, sembrava dialogare con tutti noi, ma con una particolare predilezione per mio padre, tanto che ne ero perfino gelosa. In fondo, ero stata io a salvarlo da morte certa e io gli avevo dedicato il maggior tempo rinunciando perfino ai divertimenti. Ma, con mio padre, era un’altra cosa. Se gli passava vicino, si sporgeva a beccargli la camicia emettendo un cip ciop di saluto. Al mattino a lui erano riservati i migliori gorgheggi.

A volte, dopo esserci accertati che porta e finestre fossero chiuse, aprivamo la porticina della gabbia. Dopo qualche riflessione, lui usciva e volava dritto alla spalla di papà, beccottandolo qua e là. Quando si riteneva appagato, rientrava al suo posto sfoderando tutta la sua gioia e la sua bravura nelle capriole. Prima del rientro a Trieste, ci fu uno dei miei primi scontri coi genitori. Mamma e papà cercarono di convincermi che era giusto liberare Felicino. Ora stava bene, noi avevamo compiuto un’opera meritoria ma quello era il suo ambiente, all’aperto e tra i suoi simili, non in una gabbia in città. Io mi opposi fermamente con tutte le mie forze, lacrime e minacce comprese. Alla fine, trovammo una soluzione, diciamo così, provvisoria. Avremmo valutato il comportamento di Felicino in città e, se avessimo notato un suo disadattamento, lo avremmo liberato l’anno seguente in Istria.

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