Fantasmi dal passato: i riflessi del regime nazista dentro a un videogioco
Nel saggio Il nemico comune Francesco Santin analizza un fenomeno attuale. Il copywriter di Chions: «Ho voluto unire rigore storico e prospettiva mediale»

In un’epoca in cui il videogioco è diventato un mezzo culturale a tutti gli effetti, anche i fantasmi del passato trovano nuove forme per riaffiorare. Il nemico comune (edito da Unicopli), il saggio di Francesco Santin, 27enne copywriter di Chions, ci accompagna in un’indagine insolita: come è stato rappresentato il regime nazista nei videogiochi?
E soprattutto: perché? Presentato nei giorni scorsi a Milano insieme ad altri titoli della collana Wipe, il volume analizza titoli iconici e casi controversi, tra semplificazioni commerciali e potenzialità educative, dimostrando che dietro a una sessione di gioco si può nascondere molto più di un semplice passatempo.
Come nasce l’idea di Il nemico comune?
«Tutto parte da un intreccio di passioni personali: la storia e i videogiochi. Quando un mio collega di redazione ha avuto l’opportunità di collaborare con una casa editrice per una nuova collana, mi ha chiesto di proporre delle idee. Tra le varie, quella del nazismo nei videogiochi è stata accolta immediatamente, e da lì è partito tutto: ricerche, contatti con sviluppatori e l’analisi critica di titoli, saggi e interviste. È nato così un saggio di 314 pagine che cerca di sintetizzare un tema complesso e attuale».
Qual è stato l’approccio di ricerca?
«Ho voluto unire rigore storico e prospettiva mediale. Il libro si apre con una parte metodologica, poi esplora le radici storiche della rappresentazione del nazismo nei videogiochi, a partire dalla de-nazificazione post-bellica fino all’influenza americana sul mercato videoludico. L’obiettivo è riflettere su come le case di sviluppo e i publisher abbiano costruito una narrativa a volte semplificata, altre volte più consapevole e stratificata.
Come viene rappresentato il nazismo nei titoli più popolari?
«Dipende dal tipo di gioco e dalla sua destinazione commerciale. Titoli mainstream come Call of Duty, Medal of Honor, Brothers in Arms adottano spesso una visione semplificata e spettacolarizzata del conflitto. Non mancano errori grossolani: date sbagliate, uniformi storicamente inaccurate, armi fuori contesto. Eppure, questi giochi si vantano di ricerche approfondite e collaborazioni con storici. Ciò crea una dissonanza, specie se si propone il gioco anche come esperienza educativa».
Il gioco può essere davvero uno strumento educativo, quindi?
«Sì, assolutamente. Esistono titoli, spesso indipendenti o sviluppati da università, che rientrano nella categoria dei “serious games” e che sono pensati espressamente per educare, oltre che intrattenere. Anche se il grande pubblico non li conosce, rappresentano un’alternativa valida. Alcuni titoli più complessi, come Europa Universalis IV, permettono addirittura di affrontare interi esami universitari, come nel mio caso con la storia dei paesi afro-asiatici».
Ci sono differenze significative a livello geografico nella produzione?
«Sì, soprattutto in Germania, dove esiste una legislazione molto rigida sulla simbologia nazista (la famosa sezione 86ª del codice penale). Per anni i giochi che volevano entrare nel mercato tedesco hanno dovuto censurare svastiche e riferimenti espliciti al nazismo. Solo recentemente, riconoscendo la forma d’arte nel videogioco, si sono aperti spiragli per rappresentazioni accurate, purché con finalità educative.
Il videogioco può in qualche modo aver contribuito a “sdoganare” il nazismo tra le nuove generazioni?
«Direi il contrario. Almeno negli ultimi anni, molti giochi hanno preso una posizione netta contro i movimenti di estrema destra. Un esempio su tutti: Wolfenstein II – The New Colossus, che durante la promozione ironizzò sullo slogan di Trump “Make America Great Again” trasformandolo in “Make America Nazi-Free Again”. Quel tweet suscitò molte reazioni, soprattutto da ambienti che criticano i giochi per essere “woke”, ma ha dimostrato che il videogioco può essere anche una forma di impegno culturale».
E quanto è importante il contesto narrativo nella costruzione del “nemico”?
«Molto. In molti titoli il nemico nazista è ridotto a bersaglio da eliminare, disumanizzato, svuotato di significato storico. L’umanizzazione del nemico non è un’assoluzione, ma un modo per capire la complessità della guerra e di chi l’ha combattuta, adottando un approccio più maturo, raccontando la guerra da più prospettive senza mai giustificare il regime».
C’è quindi un potenziale ancora inespresso nei videogiochi come strumenti di riflessione storica?
«Senza dubbio. Il videogioco è un medium artistico complesso, che può e deve dialogare con la storia in modo critico. Sarebbe auspicabile vedere un dialogo più stretto tra studiosi, sviluppatori e pubblico. Perché dietro a un titolo apparentemente “solo per divertirsi”, può nascondersi un’enorme opportunità educativa, sia per chi gioca sia per chi osserva da fuori, magari genitori e insegnanti».
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