Erri De Luca dà voce alla Sarajevo martoriata sul palco del Mittelfest

Evento di musica e parole in piazza Duomo. Saranno recitati i versi del poeta Sarajlic. Con lo scrittore in scena Damato e la Minuscola offerta Balcanica. «Le città vogliono vivere»

Mario Brandolin

Le rose di Sarajevo, un evento di musica e parole in scena questa sera al Mittelfest di Cividale in piazza Duomo alle 21, per ricordare la città martire e simbolo del disfacimento di modello di convivenza possibile tra genti di etnia diversa, come accaduto nella guerra di fine secolo scorso alla capitale di quella che fu la Bosnia e Herzegovina, Sarajevo dai molti campanili e minareti, e ricordarlo attraverso l’esperienza poetica di uno dei suoi cantori, il poeta Izet Sarajlic così some viene rivissuto nelle parole di un altro scrittore, il nostro Erri De Luca che di Sarajlic fu amico.

«Dentro Sarajevo – racconta De Luca che sul palco d Cividale sarà affiancato da Cosimo Damiano Damato che con Cosimo Damiani e la Minuscola Orchestrina Balcanica –, ho incontrato il poeta Izet Sarajlic, stringendo una forte amicizia. Lui mi accoglieva con un: “Bentornato nel carcere più grande di Europa”.

L’accerchiamento di oltre mille giorni aveva trasformato i cittadini in detenuti. Il più diffuso cartello stradale era Pazi Snajper, attenzione ai cecchini. Sparavano con fucili di precisione dalle colline vicine. Facevo l’autista di convogli di aiuti volontari.

Lui e altri intellettuali costituivano un circolo di resistenti letterari Krug 99. Ripeto una frase che Izet scrisse dopo la morte di stenti in Sarajevo dell’ultima sorella, Razija, la minore, traduttrice dall’italiano: “Ma io non posso non essere fratello”. Così è anche per me».

Quali sono i tratti salienti della poesia di Sarajlic, che dopo la guerra di Bosnia ebbe occasione di venire diverse volte anche in Italia, dove collaborò con la “Casa della Poesia” di Baronissi, della quale fu nominato presidente onorario?

«Una scrittura limpida, senza fronzoli e sperimentalismi, di cose concrete. Una poesia che cito spesso riguarda i sandali di un bambino, esposti nel museo di Auschwitz».

Come è strutturata la serata al Mittelfest?

«Musica e interventi narrativi di Cosimo Damato e miei. Leggiamo anche delle lettere che ci scambiammo, Izet e io, negli anni ’90. Le rose sono sia i suoi versi che quelle lasciate sull’asfalto dalle granate esplose. E poi ci sono interventi musicali della Minuscola Orchestra Balcanica di Giovanni Seneca, Anissa Gouiz e Gabriele Pesaresi».

Le rose di Sarajevo, fino a qualche anno fa erano le macchie di vernice rossa che coloravano le buche provocate dalle esplosioni nelle strade. Cosa resta di quel periodo in cui, pur nelle difficoltà, si cercò di mantenere vivo l’interesse per la cultura, le serate teatrali, di poesia e di cui Sarajlic fu instancabile animatore?

«Manco da molti anni, non so cosa resta di quella resistenza. Le città vogliono vivere, rifarsi dei lutti, dimenticare. Serve loro un silenzio per cicatrizzare. Poi la generazione seguente ricorda e trasforma in narrativa le macerie».

La guerra di Bosnia provocò in Sarajlic una profonda frattura con il suo credo marxista, una delusione lacerante. Anche alla luce di quello che sta succedendo nell’est Europa, è ancora possibile pensare a un futuro diverso da quello capitalista che ormai informa tutto il mondo?

«All’alternativa penseranno e provvederanno per necessità i futuri abitanti del pianeta. Dovranno inventare una economia della riparazione basata su piccole comunità autosufficienti. Non so se saranno numerosi o residui, ma di certo malediranno chi li ha preceduti e il loro sistema di accaparramento».

Lei aveva conosciuto la capitale Bosnia prima della guerra. Che cosa rappresentava Sarajevo per la cultura europea, prima che la guerra ne travolgesse l’identità?

«È stata la città scintilla della prima guerra mondiale, poi è stata la più a lungo circondata e trasformata per anni in una prigione a cielo aperto. Per me è rimasta un simbolo del 1900».

Lei ha partecipato a molte spedizioni di aiuti nella Sarajevo assediata. Quale il ricordo o l’impressione che l’ha maggiormente segnata di quel periodo?

«Il cunicolo scavato sotto il monte Igman lungo un chilometro alto due metri e stretto. Da lì entravamo in fila indiana coi pacchi famiglia in spalla per sbucate dentro Sarajevo».

La situazione in Bosnia è definitivamente pacificata oppure sotto le ceneri covano ancora rancori che possono riesplodere drammaticamente?

«Le espulsioni sono definitive, gli scacciati non torneranno, restano intatti lutti e rancori, approfonditi dalle diverse lingue nazionali spiccate dal ceppo comune».

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