De Marco e le donne del mondo: si inaugura una mostra del fotografo friulano
Contestualmente esce per Forum editrice il libro “Un mondo di donne in cammino” arricchito un testo di Luciana Castellina e dalla postfazione di Angelo Floramo, di cui anticipiamo un estratto

Sabato 9 marzo, alla Galleria Ceribelli di Bergamo, si inaugura una mostra del fotografo friulano Danilo De Marco, dedicata alle donne di tutto il mondo, dalle raccoglitrici di tè nello Sri Lanka, di alghe rosse a Zanzibar, madri sfollate con i figli al petto, in India.
Contestualmente esce per Forum editrice il libro “Un mondo di donne in cammino” arricchito un testo di Luciana Castellina e dalla postfazione di Angelo Floramo, di cui anticipiamo un estratto per gentile concessione della casa editrice.
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“Nei tuoi occhi per vedermi”. Ogni volta che attraverso una galleria di immagini scattate da Danilo De Marco, oppure ho l’occasione di sfogliarle dalle pagine di un libro, o meglio ancora il privilegio di tenerle tra le mani, vengo preso dalla sensazione straniante che non sia io quello che guarda, ma loro. Loro che se ne stanno al di là, dall’altra parte. E guardano me.
Loro che camminano, lavorano, fumano o siedono, leggono o combattono, scappano o si ribellano. Sempre loro. Intercettano il mio andare e mi gridano dietro qualcosa, senza dirmi niente. Non lo fanno mai.
Ma il silenzio sa essere profondamente loquace. Tanto da farmi male. Basta solo uno sguardo, ed è proprio quello che mi fa inciampare. Succede anche questa volta. Maledetto lui, il fotografo.
Gli occhi che mi giudicano oggi sono quelli delle tante donne che mi interrogano, oltre la cornice che abbraccia la superficie traslucida del vetro. Finestre che si aprono in altrettante fughe dentro ai panorami di un multiverso tragico, feroce e non so perché anche bellissimo, in cui vengo preso, rapito. Portato dentro a forza.
Da qui a lì è un attimo. Ma vale molte vite. A guardarvi negli occhi. E d’ora in poi è a voi che mi rivolgo, “donne che avete intelletto d’amore”, come vi avrebbe definito quel profugo clandestino che come tutti gli altri, profughi e clandestini come lui, ha attraversato l’Inferno che si nasconde sotto i piedi della nostra indifferenza.
Ogni fotografia è un incrocio di vite, di rughe, di sorrisi. Di età diverse e di geografie, sempre quelle dell’altrove – le predilige l’anima ribelle dell’Autore, da sempre! – dimenticate e rimosse dalla frettolosa opulenza dei nostri tempi, quella che per lo più connota la distratta e colpevole indifferenza di tutti coloro che come noi, me compreso, con ogni evidenza sono nati da quest’altra parte del mondo. Quella giusta. Mica per merito. Per puro caso.
Al di qua del vetro che adesso ci separa. E della sua cornice. Sì, è vero: ci siamo presi i posti migliori. Quelli dei privilegiati. Li abbiamo occupati con la tracotanza di chi è convinto che gli spettino di diritto, senza nemmeno fare il bel gesto di pagare il biglietto. Nemmeno la “finta”, abbiamo fatto. Così, tanto per salvare la faccia.
E si fotta pure chi resta fuori. Quelli come voi. Non è un problema nostro. Non ci riguarda. Mai. Ma quegli occhi! I vostri occhi. Una volta intercettati è proprio impossibile evitarli. Che parlano di Terra. E di Resistenza.
Due parole che hanno a che fare con il femminino profondo. Lo sapevano anche i latini, declinandone le combinazioni semantiche, tutte connesse a quell’antichissima radice linguistica, “fe”, che ha sempre avuto a che vedere con la ‘luce’, quella che sa aprire squarci perfino nel buio più profondo: ‘femina, feracitas, fecunditas, ferocitas’.
Il ruggito delle madri, che urlano l’eterna strage degli innocenti, rappresentati dal volo in alto dei gemelli, scaraventati fuori dalla vita nei cieli dell’Uganda. Ogni scatto è un fotogramma carico di rimandi, citazioni, omaggi più o meno espliciti, che esplodono come epifanie improvvise, gravide di significato.
Ma se potessi aggiungere parole allo scatto di Danilo, allora sarebbero quelle di mia nonna quando non sapeva come rimproverarmi. Un po’ le assomigli. Certo, le tue sarebbero più pesanti, quasi definitive, senza possibilità di assoluzione. “Che cosa avete fatto, di questo vostro porco mondo?” sembra tu dica.
Le Palestinesi. Come potevano mancare! Guadatevi là! Ma davvero a Gaza credevate ancora che ci potesse essere vittoria, conquistata come Davide già fece con Golia, il gigante, a colpi di sasso? Che mi dite adesso, che in sassi e macerie Davide ha ridotto le vostre case, di cui non restano altro che ‘brandelli di muro’?
Eppure siete ancora lì. Rimanete accanto alle fosse dove giacciono i corpi martoriati dei vostri figli. Dei vostri mariti. Cristacci staccati dalla croce, senza speranza alcuna di resurrezione. Camminate leggere sul pelo dell’acqua, raccogliendo le alghe, al riverbero di un mare infinito come solo la disperazione sa esserlo.
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