Daniele Barbaro il “Patriarca per caso” amato dai pittori e da Andrea Palladio

WALTER TOMADA
Moriva a Venezia 450 anni fa, il 13 aprile 1570, Daniele Barbaro, uno dei più grandi umanisti del Cinquecento. Perché ne parliamo? Perché fu “Patriarca per caso” e pronipote di un Patriarca.
Suo padre era infatti nipote di Ermolao Barbaro, il primo dei quattro esponenti di questa potente famiglia patrizia veneta che furono nominati successori di Ermacora.
Se il suo nome non suonasse familiare, di sicuro saranno ben più noti gli straordinari intellettuali con cui era in contatto: nomi come Giovanni Della Casa e Pietro Bembo, Bernardo Tasso e Pietro Aretino.
Gente che frequentava l’alta società veneta da cui veniva questo rampollo che, dopo gli studi all’Università di Padova, a soli 34 anni venne nominato ambasciatore della Serenissima alla corte di re Edoardo VI d’Inghilterra. La fiducia del Consiglio dei Dieci nei suo confronti era tale che, solo due anni più tardi, nel 1550, fu nominato Patriarca di Aquileia, ruolo che ricoprì “de iure” fino alla morte, anche se di fatto a fare il bello e il cattivo tempo era ancora il suo predecessore – e parente - Giovanni Grimani.
Fu “Patriarca per caso”, quindi, e anche piuttosto disattento rispetto alle questioni friulane. Giuseppe Alberigo ricorda che “il patriarcato rimase un episodio marginale” in una vita dedita essenzialmente all’attività culturale. Eppure il titolo gli servì per esser chiamato a rappresentare la Diocesi e l’intera Repubblica Veneta al Concilio di Trento, dove lui – uno fra i più “assenteisti” tra i Patriarchi di Aquileia – sostenne con forza l’obbligo di residenza per i vescovi.
Le incombenze da ambasciatore però non facevano per lui: preferì lasciarle al fratello minore Marcantonio, che anni dopo si sarebbe fatto strada come plenipotenziario della Serenissima nelle trattative che seguirono alla battaglia di Lepanto.
Lui invece preferiva dedicarsi a studi dotti, con la pubblicazione del trattato “La pratica della perspettiva” (1569) e di ben due edizioni del “De architectura” di Vitruvio: tradusse in italiano la prima, commentò invece la seconda in latino, arricchita dalle illustrazioni del “moderno Vitruvio”, il suo caro amico Andrea Palladio, a cui affidò la realizzazione della mirabile Villa Barbaro a Maser. Ad affrescare quella dimora fu chiamato uno dei più grandi pittori del Cinquecento, Paolo Veronese, autore anche di due splendidi ritratti di Barbaro ormai adulto e canuto, oggi esposti uno a Palazzo Pitti a Firenze e l’altro, con i paramenti da Patriarca, al Rijksmuseum di Amsterdam. Veronese non era stato tuttavia l’unico gigante dell’arte a ritrarlo: al Prado di Madrid si può infatti vedere un suo ritratto di quando era sulla trentina. A firmarlo fu uno che ritraeva Papi e Imperatori: Tiziano Vecellio.
Nel 2014, per i 500 anni dalla nascita di Barbaro, i ritratti di Veronese e Tiziano vennero esibiti insieme alla Fondazione Cini di Venezia: fu un modo per rendere omaggio alla valenza culturale, di cui al Friuli non toccarono che le briciole. —
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