Dalla Cina con remake: arriva il nuovo “Hachiko”

La terza struggente versione del celebre film con protagonista un cane

Gian Paolo Polesini

Ascese e cadute del cinema cinese. Ci viene facile parlarne per una pellicola in cartellone oggi al Far East Film Festival il cui titolo è nel cuore di tutti: “Hachiko” e basta il titolo per evocare gli abbondanti singhiozzi degli spettatori quando l’Akita di Richard Gere se ne va lassù dopo anni di attesa alla stazione ferroviaria del padrone morto.

Curva impazzita, si diceva.

La vastità dei territori cinesi favorisce incassi impensabili pure in America, nonostante il Paese di Biden sia più liberale di quello di Xi Jinping, che non tutto fa passare.

L’import-export cinematografico della Repubblica Popolare è assai complesso perché è costretto a rispondere, appunto, a una serie di limitazioni e di censure come, del resto, altrove in Oriente.

Pensiamo solamente alla Corea del Nord. Al Feff del 2012 fu ospitato “Comrade Kim Goes Flying”, una coproduzione con Belgio e Gran Bretagna (incredibile!) e ricordo ancora il cast nei talks del mattino a raccontare il loro film, ma nulla di più.

Qualcuno tentò di carpire le stranezze e le follie della dittatura di Kim Jong-un e furono tentativi vani.

Dunque, la Cina. L’anno della Tigre, il 2022, ha attraversato la storia con parecchi colpi di scena come l’inaspettato crollo del 36 per cento rispetto al 2021 e, addirittura, del 53 per cento guardando il 2021.

Picchi down sopraggiunti anche col rafforzarsi del Covid-zero che ha costretto le sale ad aperture e a chiusure con un’alternanza piuttosto serrata, provocando continui terremoti economici. Il 2023 è, invece, l’anno del Coniglio e il desiderio è quello di riprendersi i record del periodo pre pandemico.

Sarà per le 14.30 il rendez-vous col remake di “Hachiko”, sempre al Giovanni da Udine, s’intende, una pellicola made in China che si rifà al capostipite nipponico del 1987.

Noi abbiamo negli occhi il film americano del 2009 con il professor Gere, ma la storia vera è giapponese, come molti di voi sapranno.

L’Akita Inu bianco dell’agronomo Hidesaburō Ueno visse a Ōdate dal 1923 fino al 1935. In tutto il Paese la vicenda del cane che ogni mattina raggiungeva la stazione di Shibuya per accogliere chi non sarebbe mai sceso dal treno, divenne un simbolo di fedeltà e di affetto, tanto che alla sua morte il comune dedicò a quello splendido quadrupede, che si chiamava Hachi (in giapponese significa otto, un numero benaugurante) una statua dell’artista Teru Ando, che durante la seconda guerra mondiale fu demolita per la necessità di reperire qualunque metallo utile fagli armamenti.

Ma nel ’48 il figlio di Ando ne costruì una nuova, ed è quella che ancora accarezzano i turisti di tutto il mondo.

E così, si diceva, nel 1987 uscì nelle sale giapponesi "Hachikō Monogatari", diretto da Seijirō Kōyoama, il cui enorme successo di botteghino risollevò le sorti traballanti della casa di produzione Shochiku Kinema Kenkyû-jo.

Nel 2009, il regista svedese Lasse Hallström — due nomination all’Oscar e un paio di film importanti: “Le regole della casa di sidro” e “Chocolat” — s’impossessò di questa sensibile amicizia trasformando il film in un cult movie.

E adesso è il momento di confrontarsi con la terza versione, quella cinese di Xu Ang (2023),con una location pazzesca. La città scelta è Chongqing inquadrata nel periodo della costruzione della diga sullo Yangtze, una metropoli enorme ma non molto sviluppata. Per muoversi è necessario affrontare ripide scalinate e “volare” sul fiume dentro enormi cabine della teleferica.

Un motivo in più per tornare al cinema, ben sapendo che un pianto sarà anche stavolta compreso nel biglietto.

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