Dal Medioevo alla soppressione dei titoli: la parabola di potere della nobiltà friulana

L’importante recente lavoro dell’architetto Gianni Virgilio raccoglie una ricca messe di testimonianze legate a una parte delle famiglie “parlamentari” del Friuli attraverso gli attuali rappresentanti che raccontano le proprie storie familiari visivamente tangibili in quel grande museo fatto di castelli, palazzi, opere d’arte.
Rispetto agli altri ceti, nonostante il recupero della cultura materiale e della civiltà contadina, la nobiltà è il ceto le cui dimore storiche sono le più visitate nel corso delle programmazioni organizzate. Nobiltà è diventata dunque una parola che nel senso comune induce facilmente a significati idealistico-romantici in una auto-rappresentazione ancora viva.
Non occorre una gran cultura storiografica per diffidare delle favole genealogiche raccontate di molti casati nobiliari nel corso dell’età moderna. Tuttavia le fantasiose ascendenze troiane, romane o germaniche non inficiano quella che ai non addetti ai lavori parrebbe essere la realtà delle cose.
Nessuno dubita che due, tre, quattro, cinque secoli fa i nobili c’erano davvero: erano identificabili con coloro che erano i padroni della ricchezza, del favore dei sovrani, delle istituzioni locali; si tratta di un’immagine della nobiltà – tramandata anche da letture scolastiche – che la identifica con uno stato o ordine in una società gerarchica strutturata sul diritto di nascita; ovvero, infine, con degli optimates cui spetta l’appannaggio di dirigere l’intera società, cioè un ceto dirigente.
Ma secondo la vulgata popolare certi personaggi finiscono per assomigliare a dei don Rodrigo dei Promessi sposi, o più civilmente al Conte di Fratta ne Le confessioni di un Italiano del Nievo, dove il feudatario è circondato da un corteo di servitori che al menomo starnuto del signor Conte «gridavano a gara: – viva; salute; felicità; Dio conservi il signor Conte! » , nell’attesa dell’arrivo in campagna del cognato, patrizio veneto, ed esempio di benevola urbanità; appartenente a un ceto che non si riconosceva in alcuna sovranità esterna, nemmeno a quella imperiale.
Nel Friuli dell’Ancient Règime esistevano perlomeno due diverse nobiltà: la nobiltà castellana, ovvero quella dei feudi più o meno consortili rappresentati in Parlamento, e la nobiltà urbana o patriziato civico. Udine, a esempio, costituisce una matricola della sua nobiltà solo dopo la riforma degli statuti del 1513. Ma anche prima esisteva un ceto dirigente urbano che impropriamente s’identificherebbe con la nobiltà.
La nobiltà castellana non considerava alla sua propria stregua la nobiltà urbana, i cui membri però controllavano di fatto i consigli cittadini, cui non potevano accedere invece i castellani.
Per un castellano della Patria in età moderna era indispensabile identificare la propria condizione con la vera nobiltà, quella militare, ossia quella dei “guerrieri medievali” che imperatori e patriarchi avevano gratificato e vincolato al proprio servizio con la concessione di un feudo con più o meno ampie prerogative giurisdizionali. Nessuno poteva essere “zudeze de Castellani de la Patria” in Friuli, tranne il luogotenente veneziano, che, in quanto rappresentante del potere sovrano, era anche il superiore feudale di tutti.
Soprattutto fino al Quattrocento essere considerati nobili o no non era davvero una questione cruciale, come nel Cinquecento quando venne posto all’ordine del giorno un’idea accomunante le diverse nobiltà italiane, dove si trattò di precisare i contenuti, stabilire a esempio se nobilitassero maggiormente le lettere o le armi; o come affermava Silvio di Porcia nel 1597 «perché in altro non si conosce il nobile dall’ignobile che dall’antichità dei privilegi». Certo, il di Porcia non avrebbe avuto difficoltà a esibirli, vista l’origine di “libero” del suo casato, e non di ministeriale o di abitatore, come erano divisi in età patriarcale, accomunati in epoca veneta dalla generalizzata e legittimante voce di “castellani”.
La Rivoluzione francese e la conquista dell’Armée di Napoleone spazzarono via la società gerarchica degli ordines ereditati dai secoli precedenti e tutte le sue manifestazioni di distinzione e d’onore in ossequio ai principi di libertà e eguaglianza tanto celebrati dai philosophes illuministi nell’utopia della realizzazione di un mondo perfetto. Salvo poi restituire titoli e privilegi a uso e consumo della nuova nobiltà della corte napoleonica.
Alla Restaurazione degli antichi regimi, tuttavia, ci si guardò bene di restituire anche le residuali espressioni di potere feudale: per decreto imperiale di Francesco I (7 novembre 1815) si realizzò l’unificazione della nobiltà civica e della nobiltà feudale in un’unica categoria, definita “nobili”. Adesso ciò che rendeva differenti, “migliori”, nobili appunto, erano la lealtà, le capacità personali e la dedizione della persona, secondo un concetto di “funzionariato” per il quale la nobilitazione era costituita dal servizio reso allo Stato, cioè al sovrano, invece eludendo sistematicamente il principio ereditario.
Il percorso della nobiltà dall’epoca medievale alla soppressione costituzionale dei titoli nobiliari rappresenta dunque la storia della complessa evoluzione e trasformazione di un ceto dirigente, di cui però la società in ogni caso necessita. Si tratterà ora di saper nuovamente accoppiare a tale prerogativa di primato anche quella “nobiltà di cuore” nel significato più ampio e più elevato del termine, nobiltà che sola può sostanziare e legittimare l’aristocrazia.
Il libro di Virgilio “Breve storia di casati friulani... ovvero nobiltà del Friuli” offre anche una ricca documentazione iconografica che segna gli indirizzi di gusto seguiti da una committenza che si volse, come d’altronde in tutta Europa, ad accrescere a fini celebrativi e di omologazione sociale le famiglie descritte.
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