Dal Friuli all’Egitto per lavorare: le chiamavano Aleksandrinke

La scrittrice racconta l’emigrazione femminile verso Alessandria dopo l’apertura del canale di Suez. Centinaia di donne trascorsero anni in Africa facendo le balie, le governanti o le cuoche 

Nel quartiere di Moharrem Bek, il piccolo forno italiano diffonde nell’aria già calda del mattino primaverile un intenso profumo di pane appena sfornato. All’interno della bottega, un bambino di quattro o cinque anni, inginocchiato a terra, disegna con una matita su un foglio appoggiato a uno sgabello: è così che la madre, Maria Lunardini, se lo tiene tranquillo e vicino, durante le ore di lavoro.

La giovane donna appena entrata – una cliente abituale – lo accarezza con sguardo intenerito. Prima di uscire dal forno gli spettina la zazzera ribelle, rivolgendogli un saluto di commiato che per lei ha profumo di casa e che forse suona così: Maman, ninin. Oppure usa altre parole: Zlatò, kokolo moj. Poche sillabe, ma il loro suono è dolce, poiché il bimbo le ispira immancabilmente una fitta di insidiosa nostalgia: i suoi figli sono lontani, e da anni la donna non li vede. Può solo ricordare i loro volti, immaginarne le trasformazioni, sperare che la lunga lontananza non ne intacchi l’affetto e la memoria.

Ma usciamo dal piccolo forno e scopriamo l’identità dei nostri personaggi ancora oscuri. Noi tutti conosciamo quel bambino: si chiama Giuseppe Ungaretti. È nato qui, a Moharrem Bek, quartiere periferico di Alessandria d’Egitto, l’8 febbraio del 1888, da genitori di origine lucchese. Suo padre Antonio – operaio impiegato nello scavo del Canale di Suez – è morto a causa di un’idropisia quando il piccolo aveva solo due anni.

Non conosciamo, invece, il nome della donna. D’altronde, la sua identità si può declinare al plurale: si estende a moltissime altre donne che lavorano qui, ad Alessandria d’Egitto, in questo ultimo scorcio di un secolo giunto alla fine. Diversi decenni più tardi, per queste giovani donne verrà coniato un termine inedito: Aleksandrinke. Il nostro focus, oggi, è su di loro.

Nel 1869, dopo lavori durati una decina d’anni, la costruzione del Canale di Suez – su progetto dell’ingegnere trentino Luigi Negrelli – può ritenersi conclusa. L’impresa, realizzata grazie a una cooperazione fra diverse nazioni europee, corrisponde in realtà a forti interessi inglesi, ma sancisce un indubbio avvicinamento fra Oriente e Occidente, consentendo l’aperta navigazione dal mar Mediterraneo all’oceano Indiano. L’Egitto, che da qui a poco diventerà de facto un protettorato britannico, riassume il ruolo strategico di epicentro dei traffici commerciali. Il Cairo, e soprattutto Alessandria, si trasformano in società multietniche e multiculturali, nutrendo immaginario e ispirazione di poeti come Giuseppe Ungaretti o Filippo Tommaso Marinetti. La vertiginosa crescita economica di Alessandria, in particolare, attrae una ricca borghesia europea ammaliata da guadagni garantiti e una massa di lavoratori, mossi, come sempre, dalla fame. Fra loro, migliaia di donne.

Le nostre Aleksandrinke.

Dal 1869, anno di inaugurazione del canale di Suez, migliaia di donne migrano in Egitto, abbandonando i territori meridionali da quello che era allora l’impero asburgico. Provengono, in particolare, dal Collio sloveno e goriziano, dalla Carniola, dal Friuli e dal Veneto settentrionale: terre su cui gli effetti socio-economici della grande guerra risultano ben più devastanti che altrove, mettendo in ginocchio la già fragile economia delle campagne. Da alcuni comuni rurali dell’area circostante l’attuale Nova Gorica migra oltre il 10% della popolazione femminile: spesso, il tessuto sociale delle comunità di provenienza ne risulta alterato in modo sofferto e definitivo.

I poderi e le case sono spesso sommersi dai debiti. La fame è in agguato. Le donne non resteranno a guardare e sceglieranno quella che per molte risulta l’unica via praticabile: l’emigrazione. Troveranno occupazione presso le famiglie della buona borghesia europea di adozione egiziana. Diventeranno balie, governanti, cuoche, badanti, cameriere.

Solitamente giovani o giovanissime – prevale la fascia di età compresa tra i 15 e i 30 anni –, ritenute affidabili, motivate da un’incrollabile etica del lavoro, tradizionalmente incapaci di risparmiarsi, sono ricercate e spesso apprezzate. Nei borghi d’origine vengono definite Lešandrinke, in Egitto ci si riferisce a loro come a les Goriciens, les Slaves, les Slovenes. Si incontrano nei pomeriggi dei giorni festivi o durante le passeggiate al parco, con i bambini loro affidati. Rincasano esclusivamente per brevissimi periodi di riposo, ma riescono a fare ritorno definitivo solo con il pensionamento, dopo un’intera esistenza vissuta altrove. Non è difficile immaginare la difficoltà nel recupero dei rapporti affettivi, il disagio nella reintegrazione in piccole comunità avvertite ormai come estranee e lontane. In questo, le storie del passato e del presente rivelano toccanti affinità, strappi emotivi eguali: basta poco per decifrarne il dramma nello sguardo delle badanti che si occupano oggi dei nostri vecchi.

Nel suo intenso romanzo “Ultima notte ad Alessandria”, André Aciman – scrittore di origini turche ebraico-sefardite – rievoca le atmosfere di un’Alessandria d’Egitto capace di convivenza, vivacità, ibridismo linguistico e culturale: uno straordinario esempio di melting-pot.

È giusto riconsegnare le Aleksandrinke non solo alla nostra memoria, ma anche a quel mondo, che in altre stagioni seppe essere aperto, curioso, poliglotta. E intelligentemente condiviso.

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