Cocoricò, la storia della celebre discoteca simbolo di un’epoca

Al Pn Docs Fest giovedì 29 febbraio il documentario di Francesco Tavella
Gian Paolo Polesini
Uno dei “protagonisti” delle serate della celebre discoteca da una scena del documentario
Uno dei “protagonisti” delle serate della celebre discoteca da una scena del documentario

Prima di avventurarsi in un’era che tanto ci manca, nonostante sia stata contrassegnata dal rosso sangue, è bene chiarire che il “Cocoricò” — un’insegna mitologica dell’abbandono musicale nel peccato — non è una discoteca: «Non è una disco, appunto, come la sedia elettrica non è una sedia», chiarì nettamente allora Roberto D’Agostino.

Anni Novanta, ecco dove siamo. Sbriciolato il muro berlinese, a Riccione s’innalzò la piramide del piacere, simbolo di una libertà di muoversi, di vestirsi, di pensare e di agire senza eguali in Italia.

Di tutta questa storia eccitante Francesco Tavella ha organizzato un docu — “Cocoricò tapes” — che vedremo il 29 febbraio, alle 20.45, a Cinemazero, per la serie aspettando “Pordenone Docs fest”.

Quando il decennio più convulso della nostra Storia rilascia la nostalgia per qualcosa, a quel “qualcosa” si sovrappongono immagini che potrebbero rientrare in quelle famigliari conficcate nelle cornici che abitano i salotti: il lancio delle monetine a Craxi, Cicciolina che offrì il suo corpo a Saddam Hussein in cambio del rilascio degli ostaggi, i processi con Di Pietro. Cartoline da un’Italia senza paura, magari con qualche macchia.

E intanto a Riccione, ogni sabato, in cinquemila raggiungevano il “Cocoricò”, capolinea di una serata senza freni, dove sentirsi davvero unici, senza la necessità di mostrare per forza il profilo migliore. Pure quello peggiore andava bene.

Qualche chilometro di girato del tempo, con un montaggio serrato (e come altrimenti?) giusto per far curiosare i millennial dentro un locale che loro nemmeno riuscirebbero a inventarsi con la realtà aumentata e vien fuori un film che fotografa l’eccesso necessario a diventare indelebile.

Il Cocoricò non ha lanciato mode, ha rappresentato la moda. Che poi nelle immagini confuse s’intravedono pure ragazzetti normali col maglione, sia chiaro, confusi in mezzo a una marmaglia di fuori di zucca, avanguardisti del weekend peccaminoso, en-travesti e un Adolf Hitler, dai modi di Eva Brown (ci siamo capiti?), che in questi anni della condivisione estrema finirebbe condannato a morte dai social, ma in quel contesto non se lo filava nessuno.

Nel limbo del libero pensiero sotto la piramide ognuno si faceva gli affaracci suoi senza minimamente badare alla morale altrui.

Loris Riccardi è stata la mente, l’art director, un visionario, soprattutto, e con lui il locale cambiava pelle due volte l’anno. Il mood è sempre stato: “Fan**lo la quiete intellettuale”.

Con uno sguardo al sociale, sottoforma di allestimenti e di installazioni per richiamare le brutture del mondo, il Cocoricò non stabiliva solamente il trend del suono, prevalentemente tecno, ma spingeva la gioventù a sbattere il muso contro guerre, violenze e altri crimini dell’umanità.

Poi molti di quelli che sceglievano il Cocoricò non davano per nulla l’idea di essere dei normali impiegati delle poste, facendo fede all’apparenza inganna. Altro motto ricorrente era: “Ci si diverte di più partecipando che a estraniarsi”, sebbene la droga fosse nell’aria, però la si condannava duramente.

Forse ancora l’idea di quel che succedeva là dentro non ve l’abbiamo data, a parole vien proprio difficile, quindi vi tocca vedere il film.

C’è uno intervistato accomodato sulla tazza del water, con le mutande giù, che fuma e risponde alle domande dell’intervistatrice come fosse su una panchina del parco.

«Vi siete davvero persi qualcosa», dice beffardo da un vecchio televisore la voce di un volto e gli diamo ragione, sempre che quella follia desse davvero un motivo essenziale di esserci.

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