Ciotole antiche e scodelle al museo etnografico

ISABELLA REALE. Ciotola o scodella, ovvero contenitore senza manico, con un piede d’appoggio alla base, di forma semisferica, da portare alla bocca con le due mani: una stoviglia sicuramente basica,...
Di Isabella Reale

ISABELLA REALE. Ciotola o scodella, ovvero contenitore senza manico, con un piede d’appoggio alla base, di forma semisferica, da portare alla bocca con le due mani: una stoviglia sicuramente basica, arcaica, uno strumento con cui nutrirsi, dissetarsi, raccogliere e conservare, da sempre, e quindi una forma e un uso che ha attraversato i millenni fino ai giorni nostri.

A ragionare intorno alla fortuna della ciotola è il Museo Etnografico del Friuli di Udine che ha riallestito la sezione dedicata alle arti del fuoco mostrando una sintesi raffinata delle sue molteplici collezioni, e in particolare esponendo, fresche di catalogazione, alcune ceramiche donate da Geremia Nonini , che si affiancano a quelle che Luigi ed Andreina Ciceri affidarono a Udine e a Pordenone.

Questi manufatti, cotti per lo piú a margine delle fornaci per i mattoni, ma anche localizzabili in forni piú specializzati, ci parlano di un'antica tradizione ceramica in Friuli complice l’abbondanza di terre argillose: molti rimandano alle fornaci della Carnia, tra Cella in val Degano e Cercivento, famose per i raffinati catini donati nelle ricorrenze di battesimi o di nozze.

Ma ampia è anche la documentazione che racconta con continuità la produzione Galvani di Pordenone, a partire dalle stoviglie “uso inglese”, ovvero copiate da modelli, fino alle innovative forme e ai decori novecento, dove un incombente industrializzazione porta all'impiego dell'aerografo a mascherina e a una decisa rivoluzione stilistica.

Nelle vetrine del Museo fanno bella mostra di sé tazze Galvani dalle coloratissime e sfumate bande geometriche, dirette discendenti, quattro secoli dopo, dalle ciotole graffite cinquecentesche che con i reperti di scavo ci testimoniano l’esistenza di fornaci attive nell’antico borgo Grazzano, a pochi metri dallo stesso Museo Giacomelli.

Sono ciotole che recano, spesso graffita, una decorazione che ritroviamo negli affreschi coevi o nelle tavolette lignee a soffitto: oltre ai monogrammi e alle croci degli ordini religiosi, il cavetto offre profili di dame e cavalieri, veri ritratti accompagnati da motti a sottolineare virtù, amori, e simboli nascosti dietro figure di animali.

Il valore simbolico legato al cibo, al nutrirsi, alla vita stessa, è infatti intrinseco a tale manufatto: una ciotola di minestra concessa al viandante, al povero, al lavorante, era un atto di carità quotidiana, e comunque accompagnava ogni istante della propria quotidianità come ci attesta l'uso della tazza da puerpera dove veniva servito il brodo o la minestra alla partoriente.

Ma non parliamo soltanto di pezzi da Museo, perché accanto alle stesse vetrine con ceramiche antiche e moderne, la fortuna della ciotola è dimostrata da sapienti mani artigiane che oggi la ripropongono, magari ispirandosi all'antico, o decisamente innovando decori e lavorazioni, a dimostrare che un intelligente rilancio dell'artigianato ceramico anche in Friuli potrebbe incontrare, come già successo in altre parti d’Italia, una rinnovata fortuna.

E proprio per chi volesse "mettere le mani in pasta" e provare a se stesso di essere capace di creare questa forma cosí primaria e funzionale, può trovare ispirazione anche tra la raccolta ceramica cinquecentesca di villa Sulis a Castelnovo del Friuli, originata da una serie di scavi condotti dalla Soprintendenza in loco.

Si tratta di un raffinato allestimento curato da Ferruccio Montanari e Gianna Malisani, che ora, grazie all’apporto di alcuni volontari, riapre le sue porte ma non soltanto per mostrare le raffinate geometrie graffite, ma grazie a Marta Polli, artista della ceramica, anche per insegnare la tecnica rinascimentale, l'ingobbio, recuperando la tradizione antica.

Divisi in due corsi, una trentina di allievi di ogni età, fa rivivere proprio in questi giorni l’esperienza dei “magistri scodellari”, sotto la protezione di quella Madona des scudielutis, che ispirava quanti lavoravano con arte e devozione le argille della pedemontana.

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