Cimiteri di guerra e sacrari, un viaggio nella religione civile di un popolo

UDINE. La guerra, uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, si è sempre lasciata alle spalle una scia di morti, “di cani e d’augelli orrido pasto” scrisse Omero.
I cimiteri di guerra e i sacrari sono quindi realtà recenti, diffuse in tutta Europa dopo la Prima guerra mondiale, da leggere e interpretare con occhi nuovi dopo un secolo. Quanto mai utile e interessante, quindi, è il volume La religione civile di un popolo nel quale l’editore Paolo Gaspari ha raccolto diciassette saggi (alcuni dei quali da lui stesso firmati), per ricostruire la storia della Grande guerra fra il Carso e l’Isonzo, e anche la storia dei monumenti collettivi (Oslavia, Redipuglia, Tempio Ossario di Udine …) e dei “luoghi della memoria”.
Gaspari si propone di correggere, anche con precedenti pubblicazioni, “la storia sbagliata”, cioè la sottovalutazione della vittoria italiana nel 1918, macchiata dall’ingiusta versione della ritirata di Caporetto. Siamo perfettamente d’accordo con lui: “Caporetto fu esattamente l’opposto di quello che finora le classi dirigenti, le vere responsabili della sconfitta, hanno propagandato. A Caporetto i cittadini-soldati combatterono, quelli che topparono furono alcuni generali e colonnelli che invece di condividere con gli uomini di cui erano responsabili il comune destino (essere cioè uccisi, o feriti o fatti prigionieri) preferirono mettersi al sicuro”. Meno convincente risulta a nostro giudizio, Gaspari, quando afferma l’inevitabilità dell’entrata in guerra. La Spagna, ad esempio, rimase neutrale. Ma il Portogallo, sulla stessa penisola, partecipò alla guerra.
In questo bel libro la Grande guerra è descritta come orrore, sciagura, catastrofe, e anche come fattore di identità nazionale: così la pensava anche Carlo Rosselli. È per questo che i monumenti vengono visti come “elementi costitutivi di un popolo”, quello italiano, anche se poi Fabio Todero, ricordando il cimitero austro-ungarico di Fogliano, scrive che il Carso, non meno della Galizia, fu il “cimitero delle nazioni”. E Roberto Todero giunge alla stessa conclusione contemplando i nomi scritti sulle lapidi dello stesso cimitero. Dal Carso e dall’Isonzo, quindi, il monito è rivolto a tutta l’Europa, e i monumenti dovrebbero essere cemento per l’unità continentale.
Noi stentiamo a credere che le guerre combattute dai cittadini (non dai mercenari) cementino l’unità nazionale, posto che dopo il 1918 l’Italia vincitrice appare divisa e sull’orlo della guerra civile. D’altra parte i monumenti collettivi, fino a un certo punto soltanto civili, in realtà concepiti e realizzati in un pericoloso sincretismo politico e religioso, hanno contribuito all’elaborazione del lutto e possono assumere nel tempo valori simbolici e identificativi. Un altro pregio del libro è quello di invogliare a conoscere la storia non solo come racconto ma, nei limiti del possibile, anche attraverso la visita dei luoghi in cui tragicamente si realizzò. Bisognerebbe però spiegare ai lettori che le guerre imprimono alla storia umana salti, pieghe, accelerazioni imprevedibili e talora decisive, ma non fanno crescere la civiltà. La nazione italiana dell’arte e della scienza esisteva ben prima del Risorgimento e delle quattro guerre di indipendenza, che servirono ad affermare e dilatare uno stato unitario su una preesistenza culturale. È giusto quindi restituire l’onore alle vittime della Prima guerra mondiale, e imparare a conoscere i monumenti che le ricordano, ma è doveroso ricordare ciò che gli italiani fecero in pace e nell’arte, campo in cui detengono il primato mondiale. —
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