Ciao poeta libero che ci fai cantare «Je suis Faber»

Prima di essere un piccolo segno, l’accento acuto è un grande spartiacque: lo usi per competenza ortografica e non lo usi per inettitudine. O, peggio, per pigrizia. Ma chi si trova al centro esatto delle due sponde, inchiodato dall’anagrafe, non può certo concedersi il privilegio della neutralità: impara presto che i pigri e gli inetti sono il nemico. Un nemico dannatamente diffuso e dannatamente caparbio.
Se ci trovassimo dentro una favola di Rodari, tutti gli spigoli di Fabrizio De André discenderebbero da quel piccolo segno. Da quel grande spartiacque. Non è difficile immaginarlo mentre bofonchia "De André! De André! Con l’accento acuto!", strascicando pesantemente la cadenza genovese e somministrando robuste dosi di "belín!" allo sventurato interlocutore. Il gioco, però, mostra subito la corda: come fai a immaginarti proprio lui, fratello fragile di uomini fragili, poeta dei dimenticati e delle puttane, capace di riconoscere nell’altro un nemico?
Ed eccoci al punto. Eccoci all’eredità piú preziosa che, tra un pacchetto di Ms blu e una bottiglia di whisky, ci ha generosamente lasciato: non tanto sul piano musicale, e parliamo di immani capolavori, quanto sul piano culturale. Una controlettura totalmente laica, intelligentemente anarchica, della tolleranza e della compassione. Una controlettura della società e del tempo, della cronaca e della storia, immune dal moralismo, dalla retorica e da qualunque pedanteria didattica.
Sentire la mancanza di De André, oggi, non significa semplicemente rimpiangere un artista gigantesco: significa prendere atto che la sua morte, cosí come la morte di Gaber, ci ha portato via la potenza eversiva di un pensiero libero. Libero veramente. Un pensiero che vediamo ogni giorno inquinato, usurpato, annientato a colpi di kalashnikov e di analfabetismo etico, a colpi di brutta letteratura e di pessima politica.
Le Marinelle continuano a scivolare nel fiume, le Nancy continuano a volare dal terzo piano e il mondo, intanto, se ne accorge sempre di meno, orrendamente abituato alla banalità del male e alla prevalenza dei cretini. Orrendamente disabituato al senso civico e alla condivisione. Non siamo capaci di andare d’accordo neppure quando gridiamo «Je suis Charlie», sebbene tramortiti dall’urgenza di rivendicarci umani, quando mai potremo gridare «Je suis De André»?
Molti (troppi) nani dell’intelletto già lo fanno, scambiando l’anticonformismo per ali d’aquila, ma il loro volo si misura in millimetri. La loro incandescenza si misura in like, retweet e applausi del pubblico pagante. Non hanno capito, né mai capiranno, cosa intendesse Guccini cantando «morrò pecora nera». E, di sicuro, non sapranno mai riconoscere la meravigliosa libertà di Fabrizio De André nella sua evidenza piú illuminante: quella del super cantautore super impegnato che, fregandosene del proprio blasone, suona la chitarra in “Mama Dodori”. Una ninna nanna dolce e minuscola per la figlia Luvi.
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