Cento anni fa la Marcia su Roma: Mussolini la lanciò dal Castello di Udine
Il 28 ottobre 1922 l’evento, tra faciloneria e improvvisazione
Fu l’istituzionalizzazione di un movimento che si fece Stato

UDINE. È dalla cima dello Scalone del Castello di Udine, nel suo discorso del 20 settembre 1922, che Mussolini anticipa la parola d’ordine di quella “marcia” che, poco più di un mese dopo, lo avrebbe portato al governo: “o Roma, o morte”.
Parla ad un piazzale gremito di divise e bandiere. “Noi pensiamo di fare di Roma la città del nostro spirito”, declama, “una città, cioè, depurata, disinfettata da tutti gli elementi che la corrompono e la infangano, pensiamo di fare di Roma il cuore pulsante, lo spirito alacre dell'Italia imperiale che noi sogniamo”. Come? Anche con la violenza, perché “quando la nostra violenza è risolutiva di una situazione cancrenosa è moralissima, sacrosanta e necessaria”.
Il Paese non si era ripreso dalla guerra. Il partito fondato da Mussolini aveva costruito la sua ascesa sul ripudio della democrazia parlamentare e sull’idea che la violenza politica forse forse illegale, ma necessaria, dunque giusta. Aveva così conquistato consensi ma non tali da assicurargli una via elettorale, quantomeno non veloce. Nelle elezioni del 1921, le prime nelle quali votarono il Trentino Alto Adige e la Venezia Giulia, presentandosi assieme ai liberali aveva guadagnato una trentina di parlamentari.
Le continue violenze squadriste e il consenso crescente che Mussolini raccoglie anche tra militari e forze dell’ordine richiederebbero un saldo governo centrale ma nel febbraio 1922 viene invece nominato presidente del consiglio Luigi Facta, un liberale di secondo piano, i cui baffi a manubrio fuori moda simboleggiano la sua appartenenza ad un’altra epoca. Le manifestazioni fasciste (la “marcia su Bologna”) raccolgono decine di migliaia di uomini, senza che il governo intervenga.
Ad agosto 1922, dopo il fallimento dello “sciopero legalitario”, Mussolini comincia a pensare ad una presa di forza del potere. Indetta per protestare contro lo strapotere fascista, l’agitazione fa ripiombare il Paese nella psicosi dell’avvento dei soviet e consente a Mussolini di tornare ad agitare lo “spettro rivoluzionario”. Milano viene occupata dalle milizie fasciste, che saccheggiano e uccidono senza incontrare resistenza da parte della forza pubblica. “Che il Fascismo voglia diventare Stato è certissimo, ma non è altrettanto certo che, per raggiungere tale obbiettivo, si imponga il colpo di Stato”, minaccia.
Il governo è assente, i fascisti sono padroni sul campo, ma i suoi stessi dirigenti sono divisi tra la soluzione legale per giungere al governo, oppure la via dell’insurrezione. Si inseguono voci di piani preparati per giungere a Roma, addirittura al Quirinale, ma Mussolini smentisce. É il suo solito gioco di disinformazione, in cui è campione, per farsi chiamare al governo? Oppure sono progetti reali? Nel qual caso, la domanda da porsi è: se chiamato a difendere l’ordine pubblico, cosa farà l’esercito?
Nella notte del 27 ottobre, nelle città del centro-nord, i fascisti accerchiano caserme, occupano prefetture, sedi della radio e delle poste, salgono su treni e camion, puntano alla capitale. Il presidente del Consiglio e il re vengono buttati giù dal letto, viene approntata la difesa della città: le squadre, meno di 25 mila uomini, una cifra non in grado di occupare una città presidiata dai militari, si raccolgono nei dintorni di Roma. Il re ci pensa ventiquattr’ore poi, alle nove del 29 settembre, si rifiuta di firmare lo stato d’assedio, propostogli da Facta, impedendo così di fatto al governo di usare la forza per reprimere l’insurrezione. Il presidente del Consiglio rassegna le dimissioni: la mattina del 30 ottobre, con il suo pseudo-esercito stanco e affamato ancora nelle campagne laziali, Mussolini riceve il telegramma nel quale Vittorio Emanuele III lo invita a raggiungerlo per offrigli l’incarico di formare il Ministero.
I militari lasciano passare i fascisti, che entrano in città. Mario Missiroli scrisse che la “farsa della rivoluzione” si era chiusa senza nemmeno un accenno di resistenza: il grande giornalista si sbagliava, i quartieri popolari di Roma insorsero, a San Lorenzo i morti negli scontri furono undici. Le squadre furono fatte sfilare, poi caricate sui treni e rimandate a casa: il Mussolini rivoluzionario lasciava posto all’uomo d’ordine.
La marcia su Roma del 28 ottobre 1922 fu un misto di faciloneria e improvvisazione, ma ottenne lo scopo che il suo capo si era proposto. Per molti autorevoli osservatori del tempo fu un colpo di stato, magari “mascherato da una pseudorivoluzione civile” (Gaetano Salvemini). Altri, come si è già visto, ne sottolinearono l’aspetto farsesco: fu “una rivoluzione in vagone letto” (Ignazio Silone).
A cent’anni di distanza, sebbene una delle sue migliori rappresentazioni sia quella cinematografica (Dino Risi, La marcia su Roma, 1962), e nonostante la sua aneddotica riempia ormai interi libri, sarebbe sbagliato ridurre la marcia su Roma a una commedia (all’italiana). Fu l’istituzionalizzazione di un movimento che si fece Stato, proseguì con le violenze e le uccisioni, portò repressione e leggi razziali, la corresponsabilità nel disegno del Nuovo Ordine hitleriano, una guerra perduta e le sue tragedie. Fu l’atto generativo del regime, da cui ricalcolare il tempo dell’era fascista.
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