Cent’anni dalla morte: Franz Joseph oltre il mito
LUCIANO SANTIN. «Domattina svegliatemi presto. C’è tanto lavoro da fare». Con queste parole, la sera del 21 novembre 1916, l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe si ritirò nella sua stanza della reggia di Schönbrunn, dove aveva visto la luce 86 anni prima. Nella notte, scrisse il necrologio ufficiale, “si addormentò nel Signore”. L’Italia, impegnata nella guerra contro di lui, vide invece esultare la stampa. “Francesco Giuseppe ha finalmente tirato le cuoia”, scrisse il Popolo d’Italia, diretto da Benito Mussolini. «Nessuno, in Italia, quando si escluda una bieca minoranza di temporalisti fanatici e impotenti e qualche idiota e nefando dell’altra riva, nessuno accompagnerà all’estrema dimora con un brivido di pietà umana l’annosa carcassa del monarca carnefice».
Appare doveroso, a distanza di un secolo, rivisitare la figura di colui che, nel bene e nel male, incarnò l’Impero, tanto per i suoi undici popoli (dodici contando i friulani, che avevano, all’epoca, diritto a proclami e avvisi in marilenghe), quanto per gli amici e i nemici esterni. Francesco Giuseppe si formò nel clima della Restaurazione, e dovette salire al trono, diciottenne, nel ’48, l’anno della prima guerra d’Indipendenza italiana e delle rivoluzioni europee che provocarono l’abbandono di Metternich dall’impegno di governo.
Il giovanissimo sovrano dopo aver represso con durezza le rivolte, specie in Ungheria (di qui l’epiteto di “impiccatore”), poi, nelle guerre successive si trovò a perdere prima la Lombardia, poi il Veneto, e anche la guida della Confederazione germanica, divenuta, come l’Italia, stato unitario. Venne costretto all’Ausgleich, il “copromesso” delle larghe concessioni autonomistiche all’Ungheria, in un percorso di regno lunghissimo e segnato da accelerazioni e sbalzi che probabilmente né lui né lo stesso apparato statale erano in grado di affrontare.
In Cecco Beppe (diminutivo pronunciato con odio, ma anche con affetto) l’assolutismo illuminato e paternalistico del “tutto per il popolo, nulla attraverso il popolo”, sposò il dovere rigoroso del “primo servitore dello Stato”, il che, con qualche contraddizione, gli fece portare avanti la plumbea politica di Bach, ma anche costituire il Reichrat, parlamento austriaco e concedere il suffragio universale maschile. Cattolico devotissimo, titolare dell’jus exclusivae sull’elezionale papale (esercitato favorendo la salita al soglio pontificio di Pio X), l’imperatore protesse gli ebrei. Assecondò, Francesco Giuseppe, anche quella politica di espansione nei Balcani che sarebbe stata esiziale all’Austria: l’annessione del protettorato della Bosnia-Erzegovina fu il casus che portò all’uccisione del nipote ed erede al trono Francesco Ferdinando, innesco del rogo 1914-18. «Tutti costoro non sanno che cos’è la guerra. Io lo so, da Solferino», si dice abbia commentato l’ottantatreenne imperatore firmando la dichiarazione di guerra alla Serbia. La sua frase più famosa, forse, assieme al “Nulla mi è stato risparmiato” proferito nell’apprendere l’uccisione della moglie ad opera dell’anarchico italiano Luigi Lucheni.
L’intreccio tra le sue due vite, quella pubblica e quella privata, fu segnato infatti da eventi luttuosi: oltre all’assassinio dell’amata Sissi, la fucilazione a Queretaro, del fratello Massimiliano fresco imperatore del Messico, il discusso suicidio del primogenito Rodolfo, e appunto l’attentato mortale a Francesco Ferdinando. Malgrado le pagine che a lui dedicate da Roth, Werfel e Zweig, dopo la dissoluzione dell’“Austria Felix” Francesco Giuseppe entrò nell’oblio, sino alla riscoperta di oggi, che vede Vienna ricordarlo con quattro grandi mostre. Se l’attenzione della capitale austriaca è sospettabile di interessi turistici, appare più sincera la rievocazione fatta a Trieste, con la Kaiserfest, i convegni, i necrologi sulla stampa. La “fedelissima” rimane il luogo che più di qualunque altro ha coltivato il mito – o complesso – dell’imperatore (ancora nel ventennio l’acronimo PNF veniva riletto come “Povero Nostro Franz”).
Cent’anni fa la delegazione cittadina fu in prima fila a Vienna quando il corteo funebre dell’augusto defunto si presentò alla Chiesa dei Cappuccini, per le esequie secondo l’antico rito asburgico. “Chi chiede di entrare?”, domandò il padre guardiano. E alla lunga elencazione del titolo (“Sua Maestà Apostolica, imperiale e reale, Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, re d’Ungheria, re di Boemia, re di Croazia e di Slovenia, signore di Trieste...”), replicò: “Non lo conosco”. Lo stesso accadde con il “piccolo titolo”. Infine, alla risposta “Un povero peccatore”, per Francesco Giuseppe si schiusero le porte della Kapuzinergruft.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto