Casa Cavazzini, memoriale dell’arte friulana del ’900

È una lunga storia di filantropia, mecenatismo e amore per l’arte, quella di Casa Cavazzini. Oltre un secolo separa le personalità dei due protagonisti di questa storia: il commerciante di pellami Antonio Marangoni (1806-1885) e Dante Cavazzini (1890-1987) proprietario di uno dei più rinomati negozi di tessuti per l’arredo a Udine, nella seconda metà del Novecento.
A unirle, a dispetto della cronologia, sono invece un solido legame con la città, un vigoroso senso civico e una lungimiranza capace di trasformare l’individualismo dei fini personali in uno strumento di crescita per la comunità.
Il primo lasciò tutte le sue sostanze al Comune di Udine perché acquistasse opere d’arte contemporanea e ne facesse una raccolta museale, il secondo pose le premesse perché essa trovasse una sua degna collocazione. Si deve infatti all’avvedutezza di quest’ultimo se il Comune poté acquisire, all’inizio degli anni ‘90, il complesso di edifici che oggi costituisce la sede del Museo di arte moderna e contemporanea cittadino.
Ma se questa è cosa nota, assai meno noto è che spetta alla generosità di Dante Cavazzini e alla devota perseveranza di sua moglie Aminta Flebus se le collezioni possono oggi continuare ad accrescersi. Fu lei a tenere fede al desiderio di lui disponendo alla sua morte un cospicuo lascito testamentario in denaro perché potessero essere acquisite nuove opere d’arte per il museo.
Individuare testimonianze artistiche che meritino l’acquisizione museale è sempre stata operazione culturale di grande responsabilità: si tratta infatti di stabilire, al di là dell’offerta del mercato, che cosa sia veramente importante rappresentare all’interno delle raccolte soprattutto quando esse manifestano, per la loro storia e per il loro significato simbolico, un forte valore identitario. Se questo vale sempre, vale a maggior ragione per un museo civico quale è Casa Cavazzini.
Le sue collezioni sono il rispecchiamento di ciò che la comunità cittadina ha sempre voluto riconoscere in sé stessa, esse documentano un processo di superfetazione storica dei desideri, delle speranze, delle intenzioni che la collettività proietta nella propria interpretazione del passato.
Ma accanto a ciò che è il portato del tempo trascorso, è importante intravedere anche nuovi canali di sviluppo e saper cogliere anche quelle suggestioni che sembrano deviare da ogni via già tracciata. Di tutto questo la direzione museale, in accordo con i curatori testamentari del lascito Cavazzini – Flebus, ha tenuto conto individuando le opere da acquisire.
In quest’ottica, nel 2018, ha fatto il suo ingresso in museo lo Spartaco di Dino Basaldella (1909-1977), scultura del 1963 esposta nella sala personale che l’artista fu chiamato ad allestire alla Biennale veneziana del 1964 e in seguito presentata alla Quadriennale di Roma tra il 1965 e il 1966. Si è trattato di un riconoscimento dovuto nei confronti di uno scultore che rimase sempre legato a Udine, città dove era nato e dove scelse di operare in via esclusiva, pur continuando a traguardare un orizzonte internazionale.
Nulla di veramente significativo fino a quel momento era entrato nelle raccolte museali a raccontare di una carriera giocata su scacchieri diversificati, in cui la sua terra d’origine aveva svolto un ruolo catalizzatore.
Con lo stesso spirito è stata acquisita recentemente per Casa Cavazzini anche una testimonianza dell’arte del fratello Afro (1912-1976): le due ante di un armadio raffiguranti l’Autoritratto del pittore e il Ritratto di Aldo Merlo, dipinte verosimilmente nel 1934 durante il soggiorno dell’artista a Casarsa della Delizia per assolvere all’obbligo del servizio militare. Si tratta di due opere – una acquistata e l'altra donata dagli ultimi proprietari - che non solo documentano un periodo del percorso professionale di Afro non rappresentato all’interno delle collezioni, ma testimoniano anche il rapporto di amicizia che lo legò al marchese Giancarlo Mangilli, primo proprietario dei due dipinti.
Un legame forte di tipo memoriale con la nostra regione ha anche la terza opera acquistata per il museo. Si tratta di “Via Dante n.15, 26, 28, 30. 33010 Treppo Grande (Udine)”, 1972-1973 realizzata da Luciano Fabro (1936-2007) in un periodo tra i più significativi del suo percorso artistico.
In questo lavoro l’artista, noto a livello internazionale per aver preso parte al movimento dell’Arte povera, affianca una serie di fotografie che riprendono i calzoni confezionati dalla madre Clelia presso il laboratorio di sartoria che lei aveva allestito nella casa di famiglia a Treppo Grande (Udine) dove Fabro visse la sua giovinezza, per i Piedi che egli espose nel 1972 alla Biennale di Venezia. Sei immagini a colori raffiguranti i diversi modelli di pantalone, sono state montate in sequenza, componendo un piano visivo che si dispiega a 180° per due metri di lunghezza.
L’opera, che di per sé ha un valore documentario, costituisce anche un saggio fondamentale della ricerca sul valore memoriale e affettivo delle immagini su cui Fabro andava impegnandosi proprio in quegli anni, aprendo una riflessione che nella sua arte conobbe, di lì a poco, ulteriori e significativi sviluppi.
Ognuna di queste acquisizioni avvia, dunque, un pensiero diverso sul patrimonio museale e indica a sua volta altrettante vie per leggerlo, interpretarlo e offrire ad esso ulteriori possibili accrescimenti. Un accrescimento materiale, certo, ma anche e soprattutto spirituale, a beneficio di quella comunità di riferimento cui la generosità del dono ha assicurato un futuro di bellezza, arte e passione.
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