Caporetto, da 99 anni sinonimo della disfatta

UMBERTO SERENI. Di Caporetto in Italia si parla ormai da circa un secolo. E se ne parla così spesso che la parola è entrata nel linguaggio comune e viene usata quando si vuol dare un’idea negativa. Per riassumere in maniera immediatamente intelligibile un disastro, una disfatta, una sciagura. È una di quelle parole alle quali gli italiani si affezionano, perché da sfogo al nostro compiaciuto autolesionismo: una formula comoda per autoassolverci di colpe e responsabilità. Come se fossimo destinati a “fare Caporetto “ , per cui , alla fin fine, se le cose non sono andate per il verso che speravamo è stato perché una qualche maledizione ci perseguita.
Tra la gente del Bel Paese la parola Caporetto circola con una facilità sorprendente, anche se chi la pronuncia ha qualche seria difficoltà a spiegarne l’esatta etimologia. È sempre sulla bocca , è sempre sulla penna, per colorare con un’idea forte una vicenda sfortunata, per richiamare una storia di disastri.
Il ricorso alla parola Caporetto, accreditato da tutti i Dizionari in circolazione, può servire a rappresentare clamorose batoste sportive ( la famosa partita della Corea dei mondiali del 1966),e pesanti sconfitte politiche, come quella che toccò a Fanfani con la battaglia contro il divorzio del 1984 che lo vide sommerso da valanghe di No.
Insomma c’è sempre una Caporetto che ci aspetta. Ci accompagna, ci tormenta. Fa parte della storia italiana del Novecento C’è entrata sul finire dell’ottobre del 1917 e dalla allora non se ne è più andata. Anche se oggi invano si andrà a cercare Caporetto nella carta geografica dell’Italia. Quel nome non lo troverete, perché, per effetto del Trattato di Pace che chiuse i conti della Seconda Guerra Mondiale, Caporetto e il suo territorio cessarono di far parte dell’Italia e furono sistemati nella Slovenia. E da allora quel piccolo paese ha mutato nome e si chiama Kobarid .
Insomma, a dispetto della sua fortuna come espressione popolare, la storia di Caporetto italiana è stata piuttosto breve. Fino al 1915 stava nell’Impero, poi venne conquistata dal nostro esercito e rimase italiana fino all’ottobre del1917. Allora la perdemmo, per riprendercela un anno dopo. Con la sistemazione del confine orientale (1920)Caporetto fu aggregata alla neocostituita provincia di Gorizia che si estendeva fino all’alta Valle dell’Isonzo. Era , insomma la punta avanzata dell’Italia nella Salvia Friulana. Il direttore della nostra Biblioteca Joppi , il caro amico Romano Vecchiett, che di treni sa tutto, mi riferisce che per una quindicina d’anni, dal 1917 al 1932 , Caporetto si poteva raggiungere per treno da Udine , passando per Cividale. E la linea veniva usata con una certa frequenza da comitive organizzate di reduci che intendevano tornare ai luoghi della battaglia. Oggi le cose sono un po’ più complicate: per raggiungere Kobarid si va per strada, muovendo da Gorizia e passando da Tolmino. All’occorrenza da Gorizia c’è un servizio di pullman. Caporetto-Kobarid merita sicuramente una visita . Il paesino – in tutto meno di 5 mila abitanti – è lindo, è ospitale e accogliente: dispone di buoni ristoranti e di ottimi alberghi.
Da non perdere il Museo della Grande Guerra, allestito in un antico palazzo signorile nel centro del paese. Di per sé ripaga del viaggio e ha tutti i requisiti anche per accontentare interessi esigenti. Così come la vista che si gode da Caporetto in una di queste giornate di splendido autunno, quando i colli si colorano di giallo e di rosso, sollecita intensi coinvolgimenti e genera incantate stupefazioni. È uno spettacolo di bellezza che avvolge e acquieta, al punto che sembra impossibile che,un secolo fa, questi luoghi fossero uno spaventoso teatro di morte e di distruzione.
Ma allora , in quel tragico ottobre del 1917, per giorni da queste parti non si vide il limpido cielo che ora ci accarezza: pioveva a dirotto, la nebbia cancellava ogni cosa e il rimbombare cupo di cannoni e bombarde scuoteva le valli, squassava i villaggi, risaliva le montagne recando messaggi di morte e di dolore.
In tutte le rievocazioni , da quelle partorite dalle memorie dei protagonisti alle pagine letterarie, valga per tutti “Addio alla armi” di Hemingway , questo connotato meteorologico dei giorni dell’ottobre 1917 risulta confermato e ribadito: pioveva a dirotto, i fiumi si erano ingrossati e spumeggiavano rabbiosi, le strade erano ridotte a tratturi di fango e di acqua. Uno scenario perfetto per ospitare la tragedia che si stava svolgendo: decine di migliaia di soldati ai quali si aggiungeva poi un numero ancora maggiore di civili in fuga dalle loro case, cercavano scampo e il nemico li inseguiva.
Quella tragedia prese il nome di Caporetto, perché lo sfondamento delle nostre linee, per effetto degli attacchi degli austro-tedeschi,avvenne nel tratto di fronte compreso fra Tolmino e Caporetto. Gli austro-tedeschi avevano pianificato l’attacco in quella zona, perché la consideravano il punto più debole delle difese italiane. I fatti diedero loro ragione. (1-continua)
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