Barack Obama e Cuba al tempo di Trump

SERGIO ROMANO. Nei suoi ultimi giorni alla Casa Bianca, prima del giuramento di Donald Trump, Barack Obama ha approfittato dei poteri di cui ancora godeva per revocare la legge che garantiva il...
Di Sergio Romano

SERGIO ROMANO. Nei suoi ultimi giorni alla Casa Bianca, prima del giuramento di Donald Trump, Barack Obama ha approfittato dei poteri di cui ancora godeva per revocare la legge che garantiva il diritto di asilo ai rifugiati provenienti da Cuba non appena fossero riusciti a mettere piede sul territorio americano. La legge risaliva agli anni in cui gli Stati Uniti speravano di provocare la crisi del regime incoraggiando il dissenso cubano. Con la sua abolizione Obama, in polemica con il nuovo presidente, voleva dimostrare che dopo la conclusione dell’accordo con Raul Castro nel 2015 non era più necessario trattare i cubani come vittime di un regime dispotico. Ma non è escluso che volesse contemporaneamente evitare al suo Paese una nuova ondata migratoria nel momento in cui Trump avrebbe raddoppiato gli sforzi per stroncare l’immigrazione clandestina dei messicani attraverso il Rio Grande. Questa è una delle tante ambiguità che si nascondono nel problema dei rifugiati e della loro accoglienza. Le democrazie si dichiarano depositarie di generosi principi umanitari e dovrebbero aprire le porte a coloro che fuggono dalla povertà e dalla guerra. Ma i loro governi devono fare i conti con società sempre più preoccupate dalla prospettiva di un mondo in cui il numero dei nuovi arrivati potrebbe mettere a rischio il benessere dei nativi. E il timore è ancora più forte nel momento in cui l’emigrazione sembra diventare un’arma di cui alcuni Stati o movimenti eversivi si servono per seminare zizzania nella società di un potenziale nemico. Il problema non è nuovo e riappare periodicamente in forme diverse. L’autrice di questo libro, studiosa delle relazioni internazionali in una università americana, ha descritto alcuni casi degli ultimi decenni in cui i gruppi umani sono stati usati come “armi di migrazione di massa”. Fra gli esempi ricordati da Kelly M. Greenhill, le vicende che hanno maggiormente imbarazzato le democrazie occidentali, prima delle più recenti migrazioni provenienti dal Mediterraneo e dall’Africa, sono quelle dei cubani in fuga dall’isola e degli albanesi cacciati dal Kosovo. Per molti anni, sino al 1994, l’esodo dei cubani verso la Florida fu una sorta di sgocciolio che il regime castrista cercava di fermare. Ma nel 1994, in una fase particolarmente critica della economia cubana, Castro, invece di vietare la partenza dei suoi cittadini verso la Florida, annunciò che il regime avrebbe smesso di frapporre ostacoli e avrebbe addirittura permesso ai cubani emigrati negli Stati Uniti di venire a prendere i loro connazionali nell’isola. Già in altri casi, il leader cubano si era occasionalmente sbarazzato in questo modo dei suoi dissidenti; e in una particolare circostanza, nel 1980, si era spinto sino ad aprire le prigioni dell’isola per gettare sulle spiagge americane un buon numero di criminali comuni.

I suoi obiettivi erano molteplici. Voleva ridurre i ranghi dell’opposizione; costringere gli americani a negoziare un accordo e a riconoscere implicitamente l’esistenza di una Cuba indipendente; suscitare fastidio e malumore nella società americana. Ma voleva anche e soprattutto costringere gli Stati Uniti a pagare quello che l’autrice del libro chiama il “costo della ipocrisia”»....

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