Ammaniti: «In India per riempirmi di storie ma che fatica scrivere»

PORDENONE. Tre uomini, tre storie. In comune l’India e la ricerca di una buona vita. Lo scrittore Nicolò Ammaniti lascia le pagine dei libri per dedicarsi al cinema ed esordisce con il documentario “The Good Life” presentato sabato sera a Cinemazero di Pordenone (ieri al Visionario di Udine). Prodotto da Erica Barbiani per Videomante e sostenuto dal Fondo per l'Audiovisiovo del Friuli Venezia Giulia, “The Good Life” racconta la storia di tre italiani che per ragioni diverse si sono trasferiti in India e che in Italia non tornerebbero piú. Ammaniti scegli la via dell’intervista: i personaggi, la cinepresa e il racconto della ricerca di una buona vita. «Mi interessava - ha commentato lo scrittore-regista - approfondire la storia di quel flusso migratorio italiano, e non solo, avvenuto negli anni ’70, legato al movimento hippy che si muoveva alla ricerca di quel posto mitico che era l’India».
«Ma soprattutto - ha tenuto a sottolineare – è stato un modo per immergersi nella realtà, per nutrirsi di storie, condizione prima per essere scrittore. Ho in mente una nuova idea per un altro documentario, ma con il tempo. Ora sto finendo il mio ultimo romanzo, sono quasi alla conclusione ma scrivo con una fatica che non ho mai fatto. O forse sí, o forse è la stessa di tutti gli altri libri». In “The Good Life” c’è una storia che lega con un sottile filo conduttore i tre protagonisti: c’è Baba Shiva partito con un pullmino per sfuggire il servizio di leva, Eris che invece vi è giunto attraversando l’Asia come un nomade di altri tempi e di altri mondi, con figli e moglie, costruendo alle basi dell’Himalaya, un villaggio di pietre e legno con la bravura di un imprenditore del Nord-Est. Infine, è la volta di Giorgio, che sull’eco delle voci è fuggito dalla famiglia a tredici anni e oggi vive dopo un’iniziazione durissima, come custode di un tempio in un paese polveroso affollato di scimmie».
Sono santoni, guru, anime inquiete alla ricerca di un sogno, “rimastoni”, come si dice in romanesco, avventurieri o forse solo persone normali che cercano il vero senso della propria esistenza. Di sicuro i tre protagonisti hanno in comune un tratto: il fatto di essere dei grandi narratori di se stessi. Ciascuno porta il marchio indelebile del personaggio. Capaci di costruire una trama nata dalle loro esperienze personali e sulla scia dei ricordi. Figura determinante per la realizzazione del docu-film Erica Barbiani, presente accanto allo scrittore, che ha raccontato i retroscena delle riprese, per nulla facili, come la produttrice ha ricordato: «Dopo tre mesi di ricerche portate avanti dall'Italia - ha detto –, sono partita per l’India con lo scopo di incontrare i possibili candidati e di organizzare una sorta di casting. Non è stato facile. Zaino in spalla, telecamera in mano e ombrello nell’altra. Era infatti il periodo peggiore: monsone e temperature asfissianti. In due mesi ho percorso una media di 300 chilometri al giorno. Ho incontrato tante persone: santoni, ex-tossicodipendenti, anime tormentate e nostalgiche. Se il documentario di Ammaniti racconta un’Italia che non c’è piú, questa esperienza mi ha fatto conoscere un’India che per i vecchi hippy comincia a sentire un po’di imbarazzo. Un’esperienza professionale e di vita come poche altre».
In fin dei conti, l’India ha sempre rappresentato per alcune generazioni il luogo ideale dove esiste il tempo per il dialogo, la riflessione mistica, dove portare i propri sogni e dove vederli realizzati. L’Italia, invece, è un paese dove non si sogna piú. Namasté.
Paola Dalle Molle
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