Terremoto a Moggio, i volontari trentini: «Costruimmo le case»

MOGGIO UDINESE. Partivano da Trento il sabato mattina e tornavano domenica notte. Per oltre un anno, 15 mesi circa, i 30 volontari della parrocchia di Sant’Antonio della Bolghera, trascorsero i fine settimana a Moggio Udinese e nelle sue frazioni.
Ogni dettaglio è stato annotato da Lorenzo Detassis, in un quaderno blu che 40 anni dopo, rilegge per ricordare lo spirito di solidarietà che animava migliaia di giovani, giunti da tutta Italia, nell’estate 1976.
Dal 16 ottobre 1976 e per tutto il 1977, «partivamo il sabato mattina alle 4 e tornavamo a Trento il giorno dopo a mezzanotte. Andammo avanti così per 720 giorni lavorativi». L’allora sindaco, Carlo Treu, affidava i compiti e faceva trovare pronto il legname per costruire le casette.
Il primo approccio fu disarmante: molte case erano crollate, quelle poche rimaste in piedi, compresi i fienili, erano lesionate. Detassis scorre i nomi scritti sul quaderno blu: Giancarlo Zuntini, Marco Fronza, Ottone Tamanini, Marco Pasqualini, Luciano Frizzera, Gianluigi Lutteri, Fulvio Zobele, Romano Rossi, Dina Carbonari, Daniela Beuzer.
Il Comitato Friuli, così si erano soprannominati, era nato in seno alla parrocchia di Sant’Antonio nel quartiere della Bolghera a Trento. La Diocesi si era gemellata con Moggio e aveva smosso le parrocchie trentine a darsi da fare. Risposero più di 300. Su Moggio confluirono più di 600 volontari trentini.
«Dopo le scosse di settembre capimmo che il morale dei friulani era a terra e ci organizzammo. La zona della val Aupa non era certo ricca, un’economia di montagna quasi di sopravvivenza. Molti gli anziani e con loro instaurammo un’amicizia profonda».
Detassis conserva ancora il progettino delle casette in legno. Anche la raccolta fondi non andò male, sei milioni di vecchie lire nel 1977 erano una bella cifra. Spesso la raccolta dei soldi avveniva con il comune, le Pro Loco e i gruppi Ana, impegnati anche nel lavoro di volontariato. I vigili del fuoco e i radioamatori di Trento furono tra i primi a muoversi per prestare i primi soccorsi.
La prima a chiedere aiuto fu Lucia Bulfon, una terremotata sfollata a Bibione. «Abbiamo tanto bisogno del vostro aiuto» scrisse in una lettera indirizzata a Detassis il quale, nel suo quaderno blu, annotò anche i ringraziamenti ricevuti soprattutto dagli anziani del luogo.
Era un grazie che arrivava dal cuore perché in val Aupa non era facile arrivare e la gente apprezzava il sacrificio che facevano i volontari trentini tutte le settimane.
«I friulani - si legge tra le pagine scritte fitte fitte - hanno dimostrato di non voler perdere, nonostante il terremoto, la forza di ricominciare». E nella valle la vita doveva ricominciare da zero.
«Il Friuli ringrazia e non dimentica» si leggeva nell’estate 1976 sui muri delle case rimaste miracolosamente in piedi. Fu così anche a Moggio perché la comunità, per salutare i volontari trentini, organizzò una grande festa e fece suonare «l’unica campana dissepolta dalle macerie».
La festa si tenne a Ovedasso. «Dal paese si gode di un bel panorama, è l’unica cosa intatta rimasta», scrisse un volontario trentino nel quaderno blu. Il giorno dei saluti, sindaco e giunta aspettarono i trentini sul piazzale della chiesa distrutta.
Monsignor Alessandro Maria Gottardi, allora vescovo di Trento, fu tra i maggiori sostenitori dell’intervento a Moggio. A lui e al direttore della Caritas trentina, don Tullio Endrizzi, il comune assegnò la cittadinanza onoraria.
Detassis, allora, aveva 36 anni e due figli. Dopo la chiusura del cantiere non è più tornato a Moggio Udinese. Ha ricevuto molte cartoline perché gli abitanti nella val Aupa non hanno mai dimenticato l’aiuto ricevuto dai trentini.
I volontari della parrocchia di Sant’Antonio non furono gli unici volontari partiti dal Trentino per intervenire nel Friuli terremotato. A Gemona, Tarcento, Maiano e in val Resia, trascorsero due settimane anche diversi studenti.
La scuola professionale Ipia di Trento, invece, andò a Moggio, mentre la Lega Pasi Battisti di Trento preferì Majano. Lì, allestì una piccola tendopoli. Fra i volontari c’era Mariano Manfredi di Rovereto, che oggi ricorda «quell’esperienza come un percorso molto positivo, durato una decina di giorni».
Fra loro anche un giovane trentino, soprannominato Stachanov. Lavorava come un pazzo e stava in cima alle mura in precario equilibrio con una grossa mazza. A Majano, un palazzo di sei piani quasi si afflosciò sulle stesse travi portanti.
Poco distante una famiglia viveva in un vagone merci delle ferrovie. «Che mi diano il permesso, non voglio soldi, e già domani ricostruirò la mia casa», mi disse allora il figlio maggiore.
(p.t.)
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