Pordenone, il cotonificio Amman cade a pezzi: era la fucina dell'industria tessile

PORDENONE. Dietro la sagoma della facciata un mondo che non c’è più. Bombardato dal tempo, dall’abbandono, da decisioni congelate. Dietro il profilo del cotonificio Amman di Borgomeduna c’è uno scenario di guerra, un cuore ferito che si può vedere solo dall’alto.
A metterlo a nudo è un video, girato ad aprile con il drone e che sta rimbalzando anche sui social network. Un video che mostra come i crolli all’interno della struttura siano inarrestabili.
Visto dall’alto l’interno del cotonificio sembra un teatro di battaglia dimenticato, imprigionato nel tempo in una città in cui la storia è andata avanti pian piano escludendolo.
E non perché le varie amministrazioni non si siano poste il tema di cosa farne – non da ultimo attraverso il nuovo piano regolatore – ma perché la proprietà è privata, ha subito varie vicissitudini e quando c’erano le condizioni per costruire non è stato fatto.
Oggi, dopo la crisi economica globale che ha bombardato l’economia, l’ipotesi di costruire nuove aree residenziali e commerciali appare anacronistico. Eppure non è pensabile nemmeno che quel monumento della storia pordenonese muoia per eutanasia.
«Muore definitivamente una città nella città – ha scritto Giuseppe Magenta rilanciando il video sul suo profilo Facebook –, un pezzo di storia di Pordenone e del quartiere Borgomeduna, uno dei più importanti esempi di architettura industriale che abbiamo in Italia
Già dagli anni ’90 si prevedeva la realizzazione di un centro commerciale “Maggiore”, cioè con una superficie di vendita superiore agli 8.000 metri quadri (il piano di recupero del 2007 prevedeva mila metri quadri di centro commerciale, 300 residenze e strutture direzionali, oltre a mille 500 parcheggi).
Ai tempi dell’amministrazione Pasini l’intenzione era quella di imporre al privato il mantenimento della quinta dell’edificio – quella che si vede, tra la selva – passando sul ponte Amman, con possibilità invece di abbattere il resto.
La successiva amministrazione ha tentato, invano, di ottenere un vincolo della Soprintendenza sull’edificio e quindi ha ripiegato su un vincolo urbanistico che è stato mantenuto nel tempo, ma che potrebbe essere modificato con una variante al piano regolatore.
Non essendoci quindi un vincolo della Soprintendenza che obblighi alla conservazione dei luoghi, la proprietà stessa non è tenuta a preservare la struttura e, nell’ottica di edificare nuovi cubi, potrebbe essere più interessata al crollo dell’esistente piuttosto che al mantenimento – costosissimo – dell’esistente.
Peraltro l’amministrazione comunale non può imporre alcun intervento considerato che l’edificio non ricade su strade di pubblico accesso ed è un’isola nella città, un’isola privata in cui, almeno sulla carta, è vietato entrare.
Un’isola che è per altro a rischio esondazione. Il Cotonificio, infatti, sorge all’interno dell’alveo del fiume, in una zona acquitrinosa di sfogo per il Noncello. Proprio per questo, prima dell’opificio sorto nel 1875, non c’erano stati insediamenti in quella zona della città.
Nell’alluvione del 1966 l’edificio subì danni ingenti e solo a seguito dell’esondazione furono realizzati i primi interventi di sicurezza. Con la cessazione dell’attività industriale, però, anche le opere per la salvaguardia idrogeologica hanno smesso di essere sottoposte a manutenzione regolare per cui l’alluvione del 2002 non risparmiò l’area.
La variante al piano regolatore che ha recepito la valorizzazione dell’ex cotonificio, non a caso prevedeva l’innalzamento della quota idraulica di sicurezza da 18,50 a 19 metri sul livello del mare.
Prevedeva anche una fedele lettura dell’architettura industriale: il mantenimento della filatura bassa, dei magazzini e delle Officine e della via delle officine, dell’edificio della battitura e della carderia, dei magazzini dei cotoni sodi, della filatura nuova e della centrale termica con la Ciminiera, simbolo che svetta come un campanile laico a indicare un tempo in cui l’industria era la prima religione della città.
Ma per quanto ancora? Quello che l’acqua ha salvato – e dal 2002 a oggi non sono mancate le alluvioni, seppur minori – ora il tempo rischia di cancellarlo per sempre.
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