Migranti, storie di paura e speranza

Tavagnacco: ricerca di lavoro e fuga dai pericoli nelle partenze da Friuli, Bosnia, Pakistan e Afghanistan
Di Margherita Terasso

TAVAGNACCO. Paura e speranza, angoscia e sogni. Il bagaglio dei migranti non è cambiato. Si parte per cercare lavoro o per scappare dal pericolo, l’unica certezza è l’incertezza di una vita lontana da casa e dai propri affetti. L’altra sera, a Feletto Umberto, per la rassegna “5T contro il razzismo”, si è parlato di migrazioni grazie alla voce di chi quel viaggio lo ha vissuto sulla propria pelle. Pelle di ogni colore, gente di ogni Paese.

La prima testimonianza è quella di Germano Tion, friulano doc. «Ho lasciato il Friuli a 17 anni e sono partito per la Francia – racconta l’uomo, 75 anni, che vive ad Adegliacco –, dove ho trovato lavoro in una fabbrica di zucchero». Dopo due stagioni si è trasferito in Svizzera, in una ferriera dove su 2 mila operai, 300 erano friulani: «Un Paese ricco, ci trattavano bene». Passano sette anni e decide di rientrare dalla moglie Nella, di Branco: «Nelle sue lettere mi scriveva sempre di tornare», una questione di cuore, insomma.

Predrag Pijunovic, origini bosniache, classe 1978, è arrivato in Friuli nel 1993. La sua storia comincia però nel 1976, anno del terremoto. «Mio papà era direttore della ditta Crivaia, che forniva prefabbricati: molte casette arrivarono a Gemona – racconta – e la famiglia De Cecco fu tra le prime a usufruirne». Sarà che solidarietà chiama solidarietà, ma quella famiglia non esitò ad aiutare Predrag al momento del bisogno. «Era cominciata la guerra e avevamo più volte provato ad andarcene dalla Jugoslavia – aggiunge –. I De Cecco risposero al nostro appello con una lettera di garanzia per uscire dal Paese e poi ci ospitarono. Non è stato facile integrarsi, eravamo l’unica famiglia di profughi balcani – conclude Predrag, casaro a Venzone e appassionato di musica balcanica –. Ma la comunità ci è stata vicina».

Abid Ali, Abdul Gahafar e Qais Stanekzai sono fuggiti da Pakistan e Afghanistan. «Nel mio Paese ero ingegnere elettronico con il governo – afferma il primo –. Sono partito perché i talebani volevano usarmi come infiltrato». Dopo tre mesi di viaggio è stato fermato in Italia. «I primi tempi sono stati complicati – prosegue il richiedente asilo, che conosce 7 lingue –. Ora faccio volontariato, ma sto cercando un impiego: non importa cosa, basta lavorare».

Abdul Gahafar lavorava nei campi ed è stato costretto a lasciare il Pakistan per problemi «con il socio mafioso del padre. Avevamo bisogno di un aiuto economico, ma si rifiutò di darci una mano – svela il giovane – e mandò i suoi uomini a pestarmi». Durante i 5 mesi di viaggio è finito anche in prigione, in Grecia. «Quando sono arrivato in Italia non è stato facile, non conoscevo la lingua ed ero solo. Ora sto facendo la terza media e sto imparando a fare il barman – conclude –. Nostalgia di casa? Ogni giorno».

L’afghano Qais lavorava nel marketing. Anche nel suo caso il problema sono stati i talebani. «Partire è stato doloroso – dice –, sto cercando lavoro, ma alcuni chiedono esperienza e altri vogliono pagarti in nero: io desidero fare le cose per bene, nel rispetto delle regole».

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