Le case distrutte non caddero, mille ordinanze di demolizione

UDINE. La sera del 6 maggio calò il sipario non solo sul cinema Margherita, ma anche sulla Perla del Friuli. Tarcento il giorno dopo la terribile scossa di terremoto che sconvolse il Friuli, sembrava un campo di battaglia. Le case e i palazzi del centro storico erano tutti lesionati, nelle frazioni il destino degli edifici si riassumeva in un’unica parola: demolizione.
Le ruspe entrarono in azione qualche settimana più tardi. Quasi un migliaio le ordinanze di demolizione firmate dai sindaci, Enzo Maria Gioffrè e Giancarlo Cruder. Sammardenchia e Sedilis erano le frazioni più colpite: tra i borghi si contava il maggior numero di morti.
E chi piangeva le vittime doveva pensare anche a organizzarsi per la notte e gli anziani vennero ospitati a bordo delle automobili messe a disposizione dai residenti. Il terremoto danneggiò pure Villa Moretti, uno dei simboli, assieme al castellaccio, della Perla del Friuli.
Nel 1976 Tarcento pensava al rinnovamento. L’anno prima la Dc aveva perso le elezioni consegnando la città a un sindaco socialista, l’avvocato Enzo Maria Gioffrè, e a un’amministrazione in cui sedevano anche i rappresentanti del Partito comunista e del Movimento Friuli.
La giunta Gioffrè governò fino alla fine del 1977, cadde quando i socialdemocratici fecero venir meno l’appoggio al programma. Il vice prefetto Toscano, in veste di commissario, prese in mano la gestione della ricostruzione passata poi al giovane sindaco democristiano, Giancarlo Cruder, che nel 1978 aveva vinto le elezioni, assieme al Movimento Friuli.
In questo quadro politico, Tarcento affrontò la tragedia del terremoto. La scossa di magnitudo 6,4 della scala Richter aveva provocato crolli e soprattutto molti danni. «La sera del 6 maggio ero all’albergo Centrale, partecipavo a una delle tante riunioni di partito che venivano indette in quel periodo. Il pavimento iniziò a tremare e il proprietario del locale disse “il terremoto”».
Giacomo Cum, allora assessore ai Servizi sociali del Comune di Tarcento, avvertita la prima scossa non attese la seconda: salì in sella alla sua bicicletta e si diresse verso casa. Percorse via Roma affollata di militari, all’epoca il Friuli era terra di caserme, e lì fu sorpreso dalla scossa più forte.
«Le ruote della bicicletta andavano dove volevano, davanti a me una pioggia di tegole». Cum arrivò a casa sano e salvò. Tirò un sospiro di sollievo quando scoprì che anche i suoi familiari erano usciti indenni dal terremoto. Aveva intuito, però, che più di qualcuno poteva trovarsi sotto le macerie vivo e morto. Chiese al cognato di accompagnarlo nel giro più terribile che possa ricordare.
«Andammo - aggiunge - alla caserma Angeli a chiedere carburante per poterci muovere e partimmo verso le frazioni». E se Tarcento, seppur distrutta, contava un solo morto, «in via Mazzini - ricorda Cum - un balconcino era caduto sulla testa di una persona», a Sammardenchia era esattamente l’opposto. Le case storiche erano in parte crollate, moltissime lesionate gravemente, quasi tutte inagibili.
Qui piangevano diverse vittime e in serata «fu straziante effettuare i riconoscimenti» assieme al sindaco e all’avvocato, Luciano Missera, allora giovane consigliere comunale. Cum ricorda la disperazione dei parenti della giovane mamme deceduta, assieme ai suoi due figlie, sotto le macerie di casa. Altre persone ferite morirono nei giorni seguenti in ospedale.
«Alle 23 assieme al sindaco mi recai a Udine, alla farmacia Beltrame, per acquistare i medicinali. La strada Pontebbana era già intasata dai mezzi militari diretti nella zona terremotata a prestare i primi soccorsi». Nella perla del Friuli «il primo camion di aiuti arrivò da Casalecchio di Reno per errore. L’autista era diretto a Montenars, ma sbagliò strada e si fermò a Tarcento.
Era carico di prodotti igienici per donne e bambini». In quelle ore giunse anche l’ostetrica messa a disposizione dalla Scuola di formazione diretta da Gianni Cimetta, il personale sanitario dall’ospedale Rizzoli di Bologna e la mensa da campo gestita dai volontari che facevano capo al Comune di Milano.
Non va dimenticato neppure il Fogolâr Furlan dal Tessin che a Coia donò la scuola materna. A tendere le mani alle frazioni furono pure le parrocchie e gli austriaci.
Le tendopoli
«Tutti chiedevano tende». L’ex assessore Cum sintetizza così il clima che si respirava nei giorni immediatamente successivi al sisma. La corsa alle tende era inevitabile perché gli abitanti di Sammardenchia che, nelle primissime ore, avevano trovato ospitalità a Tarcento, voleva tornare nei luoghi dove avevano sempre vissuto e dove avevano lasciato le case sventrate.
A inizio giugno in tutto il comune mancavano ancora 180 tende. Nello spiazzo creato dalla demolizione del campanile, della chiesa e della scuola pericolanti, fu allestita la tendopoli. La pioggia che continuava a cadere in quel mese di maggio, però, rendeva difficile la sopravvivenza in tenda.
Tant’è che il sindaco lanciò un appello affinché chi voleva aiutare Tarcento inviasse assi in legno per consentire di creare le pavimentazioni nelle tendopoli. I campi dove erano state installate si erano trasformati in acquitrini con l’acqua che scorreva sotto le brande. Tanti i disagi soprattutto per gli anziani che a settembre, durante l’esodo, furono costretti a trascorrere l’inverno a Bibione.
La ricostruzione
La domanda che fin dalla notte del 6 maggio aleggiava a Tarcento era: «Cosa resterà di Tarcento?». «Non molto» rispose il sindaco Gioffrè il 3 giugno 1976 al giornalista del Messaggero Veneto, Ciro Migliore, nel box di lamiera dove erano stati trasferiti gli uffici comunali. Riferiva, infatti, che, da una prima stima, circa il 70 per cento degli edifici era da demolire.
Gioffrè escluse, però, le demolizioni affrettate che avrebbero potuto minare gli edifici con qualche possibilità di recupero. Portò l’esempio di via Mazzini chiusa al traffico proprio per evitare la distruzione dei borghi che si affacciavano su quella strada. A quasi un mese dal terremoto, Gioffrè aveva già firmato 350 ordinanze di demolizione.
«Abbiamo l’obbligo - spiegava - di far demolire gli edifici pericolanti affacciati sulle pubbliche vie che costituiscono un pericolo per la cittadinanza». Il piano delle demolizione venne completato nel 1978 dal sindaco Cruder che firmò altre 800 ordinanze. Tra queste c’era anche quella delle ex carceri in via Pretura.
«Realizzammo - spiega - il più grande aggiustamento dei piani particolareggiati. Ogni frazione aveva il suo, ma in alcuni casi erano approssimativi. Non tenevano conto dei confini. Andavano adattati di volta in volta alle esigenze della gente.
I tecnici avevano fatto una buona programmazione, ma non coincideva con le realtà dei luoghi». Le borgate e le frazioni furono ricostruite, «alcune - continua Cruder - con interventi unitari in base ai quali tutti dovevano trovare un accordo per ricostruire indipendentemente le case dov’erano». La concessione edilizia veniva concessa solo dopo la rettifica dei confini. Quasi tutti gli interventi furono effettuati dai privati.
I beni culturali
I simboli di Tarcento erano il castellaccio e villa Moretti. Entrambi furono danneggiati dal terremoto come pure il cinema Margherita, una delle prime opere progettate dall’architetto Gino Valle. La sala dotata di palcoscenico con gli spazi per l’orchestra e i camerini venne chiusa a seguito dei danni provocati dal terremoto del 1976. Da allora il sipario non è ancora stato rialzato.
E se la Soprintendenza alle Belle arti ristrutturò palazzo Frangipane e il castellaccio, il risanamento di villa Moretti restava aperto. L’edificio della storica famiglia della birra udinese venne acquistato, non senza scatenare polemiche, dal Comune nel 1989.
Altrettanta attenzione venne riposta sulle cortine nei borghi storici. «Fu una commissione composta da tecnici non tarcentini e da funzionari della Regione a classificare gli edificio di pregio storico e artistico meglio noti come articoli 8» puntualizza Cruder convinto che quella collaborazione tra Comune, Regione e i privati, ai quali veniva spiegato l’iter previsto dalla legge 30, consentì di mantenere l’impianto urbanistico di Tarcento e delle sue frazioni.
I comitati delle frazioni
Soprattutto i residenti nelle zone sparpagliate sulle colline non accettarono le soluzioni calate dall’alto. Nella borgata di Molinis, due giorni dopo la tragedia, 530 persone si riunirono in assemblea e autogestirono le operazioni di soccorso.
Nacque così uno dei primi comitati di borgata ai quali si unirono quelli delle frazioni di Sammardenchia, Sedilis e Coia. I terremotati si riunivano quotidianamente in una tenda installata davanti alla chiesa. Anche qui la gente si rimboccò subito le maniche, basti pensare che «poche ore dopo la tragedia - così recitano le cronache del tempo - c’era già chi aveva un sacco di cemento e alcuni mattoni in mano».
Si illudeva di poter passare dalle tende alle case. A spegnere quell’illusione fu il terremoto di settembre che spazzò via anche le ristrutturazioni in corso. Nei comitati di frazione si formò pure Cruder: «Ho vissuto quel periodo aiutando la gente a compilare le pratiche per l’erogazione dei contributi».
L’obiettivo era «restiamo dove siamo già dai tempi dell’installazione dei prefabbricati risalente a quando - rivela Cruder - l’amministrazione pensava di portare tutti gli abitanti nelle frazioni a Tarcento». La gente fece sentire la sua voce anche nella scelta delle aree destinate ad accogliere i prefabbricati.
«I sedimi li decidemmo noi sulla base delle perizie geologiche effettuate dalla Regione. Il commissario Giuseppe Zamberletti ci disse: “Portateci la mappa e diteci quanti nuclei familiari vanno sistemati”. E chi entrò in quelle casette era convinto di abitare “in un Zamberletti”».
Dai comitati delle tendopoli e delle frazioni, ricorda sempre Cruder, nacquero le cooperative di ricostruzione e le associazioni culturali tutt’ora presenti sul territorio.
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