Il racconto di chi sanifica gli ambienti "Ogni giorno sfidiamo il nemico, noi a casa non possiamo restare"

Disinfestare, disinfettare: parole simili, cambia una sola lettera. Ma cambia il mondo per chi se ne occupa. Disinfestare era il principale verbo quotidiano della Commerciale Deber, azienda con sede a Tavagnacco che opera in questo campo da 25 anni sul territorio regionale e non soltanto. Nelle ultime settimane l’emergenza coronavirus ha rivoluzionato completamente le priorità, scompaginato i programmi.
Il pordenonese Giulio Rosanda esce alle 7 del mattino e rincasa non prima delle 19. Anche il sabato e domenica, da quando è deflagrata l’epidemia. «E appena metto il naso fuori di casa sale il magone – afferma – notando il deserto del vialone che attraverso per raggiungere il furgone nel parcheggio, solitamente trafficato di auto che accompagnano i bimbi a scuola, autobus e camion. Tutt’attorno, un silenzio inquietante. Normalmente mi muovevo da solo, ora serve raddoppiare le forze: metto in moto e vado a prendere il mio collega. Partiamo e ci facciamo forza a vicenda, anche se non è facile pensare che siamo tutto il giorno bombardati da messaggi che ci intimano i restare chiusi in casa e invece noi non soltanto a casa non ci siamo mai, ma dobbiamo uscire proprio per andare incontro al “nemico”».
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Gli obiettivi da sanificare? Gran parte delle scuole del Pordenonese, ma anche municipi, teatri, uffici pubblici. E negli ultimi giorni il porto di Trieste, con le sue numerose zone sensibili, come le postazioni delle autorità, magazzini, bagni, dogane, uffici ella guardia di finanza, varchi e scanner per gli autotreni: questi i luoghi in cui gli addetti Deber scaricano attraverso il “nebulo” il loro prodotto sanificante virucida. «Nel capoluogo giuliano – ricorda ancora Rosanda – anche prima andavo spesso per lavoro. Ed era bellissimo godersi il panorama dalla costiera, vedere la gente che prendeva il sole o correva sul lungomare. Ora non c’è nessuno, sono tutti rinchiusi in casa. Il virus ci sta costringendo a sprecare delle meravigliose giornate primaverili. E ci impedisce di godere di un’aria mai così pulita come adesso, che le auto in circolazione sono pochissime».
«Una cosa che mi fa specie – prosegue il racconto – è non poter andare al bar a prendere un caffè. Ora al massimo possiamo fermarci all’autogrill. I locali sono chiusi e qualche giorno fa, tra un intervento e l’altro, un doganiere il caffè ce l’ha portato lui. Sono piccoli gesti che abbiamo imparato ad apprezzare, prima erano scontati, ora sono una piacevole eccezione. È bello vedere che la vita comunque va avanti. Guardare il mare ci dà speranza e fiducia e noi nel nostro piccolo cerchiamo di rincuorare e rasserenare le persone: è importante anche l’aspetto psicologico di questo lavoro, come mi insegnò il “maestro” Santino Marchesello. In questo periodo normalmente cominciavamo a preparare gli atomizzatori per la stagione estiva, i prodotti antizanzare. Chi avrebbe pensato di doversi “riciclare” per una tale emergenza, pur se di sanificazioni ne abbiamo sempre fatte...» .
Già, ma adesso si va proprio “a caccia” del virus. «Normalmente – afferma Rosanda – conoscevamo bene i nostri antagonisti: zanzare, termiti, insetti striscianti, roditori nocivi. Ora ci troviamo a combattere contro un nemico nuovo, invisibile, subdolo. E questo un po’ spaventa, anche se lavoriamo con adeguate protezioni, maschere, tute, guanti, copriscarpe. Abbiamo pure vissuto situazioni potenzialmente pericolose, di recente siamo stati chiamati perché una persona si è sentita male al porto e abbiamo dovuto intervenire tempestivamente per sanificare il locale.
Un giorno siamo stati pure fermati dalla polizia che ci ha chiesto l’autocertificazione... E mai e poi mai avrei pensato che in un municipio che frequentavamo spesso, non ci volessero far entrare per firmare il rapportino di fine lavoro. Inizialmente pensavamo che l’emergenza fosse di pochi giorni, poi il tempo si è via via dilatato, chissà quanto andrà avanti. Navighiamo a vista, le richieste si moltiplicano, la psicosi cresce. Speriamo di poter contribuire a risolvere questo inaspettato disastro. Che cosa mi manca? Soprattutto la normalità, la partitella di calcetto con gli amici di sempre, un toccasana per mente e corpo. Detesto questa atmosfera artefatta, questi ambienti vuoti e alienanti. Tornare dai miei figli, giocare a pallone con loro in cortile, è qualcosa che mi riempie il cuore, malgrado qualcuno dalla finestra mi guardi male e mi riprenda pure con lo smartphone, come fossi un untore, un’irresponsabile».
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