Il primario: «Vediamo pazienti morire nei reparti Covid e la gente pensa che ci inventiamo tutto»

PORDENONE. Un ginocchio che fa crac salendo le scale. Per andare a visitare i pazienti nei reparti Covid. Un dolore forte: menisco. La cosa sbagliata nel momento sbagliato.

Ai mondiali di calcio, correvano i tempi di Usa ’94, il nostro leader difensivo Franco Baresi si ruppe un menisco, recuperò in tre settimane e fece in tempo a giocare i 120 minuti della finale e a tirare (purtroppo sbagliandolo) uno dei rigori decisivi.

In ospedale a Pordenone Maurizio Tonizzo, primario del dipartimento di medicina interna e specialistica, tre giorni dopo era sotto i ferri e altre 72 ore più tardi di nuovo al lavoro. In campo. Per una partita che, invece, non si può perdere.

Al Santa Maria degli Angeli i pazienti sono in coda per poter essere ricoverati e i posti letti si avviano a essere tutti occupati. Abbiamo raggiunto il triplo di ricoveri rispetto al picco della primavera. Perché? Cosa è cambiato?
«La seconda ondata è stata più importante della precedente ed era prevedibile. Non solo a Pordenone, parliamo di regione. Il numero di ricoverati a marzo era 350, ora siamo già oltre mille».

Era prevedibile, diceva. Non dovevamo essere preparati?
«C’è stato un calo dell’attenzione in estate, è innegabile, mentre il virus continuava a circolare. È arrivata la stagione influenzale, anche se l’influenza di fatto ancora non c’è, e i risultati li abbiamo sotto gli occhi. Penso che l’uso delle mascherine abbia quantomeno abortito l’influenza fino a ora, ma stiamo vivendo comunque giorni non facili».

Anche per chi lavora, immagino. A marzo-aprile medici e infermieri eroi, ora a parlarne si rischiano commenti tipo “Avete rotto”, “Ma basta”...
«Una situazione che pesa, eccome. Intanto dal punto di vista mediatico la gente non ha avuto l’input giusto. Qui da noi non c’è la percezione, non so fuori, di quello che sta succedendo in ospedale. Ci sono ancora tanti, troppi negazionisti, persone che non ci credono. Pensano che raccontiamo bugie, che dichiariamo più morti di Covid per far soldi coi bonus. Leggende metropolitane, ma la gente ci crede. All’inizio, sull’onda dell’epidemia, la gente ha avuto paura e ci ha visti come lavoratori che salvavano vite. Ora pensa “Meglio morire di Covid o morire di fame?”. La parte economica pesa perché le partite Iva, le piccole botteghe, hanno perso tanto, se non tutto. Penso anche ai lavoratori stagionali che non hanno fatto l’estate, a quelli che non stanno facendo l’inverno...».

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E intanto ci si ammala. Voi come categoria più di altri. Medici, infermieri e oss qualificati e formati che diventa impossibile sostituire. Perché vi ammalate di più rispetto a primavera?
«Non so perché, qualcuno si ammala più qua dentro, qualcuno più fuori. Abbiamo avuto finora 15 medici positivi e circa 30 infermieri e oss al dipartimento di medicina interna, abbiamo dovuto chiudere medicina a Spilimbergo. Perché si sono ammalati quelli di Spilimbergo improvvisamente? C’è stata meno attenzione? Non posso dirlo. Magari ci si rilassa, si va al cucinino dell’ospedale, si tira via la mascherina per bere il caffè. È un virus bastardo, s’intrufola. Magari anche in momenti così».

Ma vi sentite ancora sostenuti e aiutati alla gente là fuori? Come poter dare una mano, concretamente?
«Chiediamo la massima attenzione là fuori, chiediamo di fatto un piccolo lockdown spontaneo. Significa muoversi meno, fare tanti meno assembramenti. Lo stiamo caldeggiando tantissimo. Le apparecchiature medicali le abbiamo prese, purtroppo mancano gli operatori. Non ho medici e ho pochi infermieri. Ho visto infermieri piangere perché non sapevamo più cosa fare. Dover liberare posti da una parte per accogliere i pazienti Covid nei momenti peggiori, il venerdì sera, il sabato e la domenica. Non possiamo dire stop e rimandare a casa la gente. Sono tre o quattro giorni che raschiamo davvero il fondo del barile. Siamo oltre i numeri delle previsioni più pessimistiche. La curva di ricoveri, qui in AsFo, è ancora in salita. Ce ne sono una ventina al giorno».


L’Azienda si muove e qualche assunzione arriva, ma par di capire che non possa essere sufficiente.
«Abbiamo assunto quattro nuovi medici internisti in più, due sono già a casa a causa del Covid. E poi tanti medici ammalati e a lungo. Mai visto un primo tampone di controllo negativo e il secondo, a sette giorni, sempre più spesso è positivo. Al ventunesimo giorno, se asintomatici, si torna al lavoro comunque. La prima dottoressa che si è ammalata il ventunesimo giorno ce l’ha alla fine di questa settimana. Poi tutti gli altri».

E intanto?
«Intanto siamo arrivati a come si faceva nella prima guerra mondiale, che alla fine si chiamano i ragazzi del’ 99. Per noi sono i medici pensionati, che mettiamo nelle zone pulite liberando i medico delle pulite per quelle Covid, in modo da tutelare i più anziani e i più a rischio. Stiamo assumendo neolaureati, le specializzazioni saranno a fine dicembre. Medici che non avrebbero potuto venire a lavorare e che invece lo faranno».

Il tutto mentre si combatte una battaglia quotidiana in corsia e si torna a casa, sera dopo sera, con un conto delle vittime che aumenta. Persone che si è imparato a conoscere, che si cura per settimane, e che si vede scivolare via per sempre. Come si regge a questa pressione?
«È pesante, ti domandi “Ho fatto tutto il possibile?”. La maggior parte dei pazienti sono anziani, ce ne sono di pluripatologici sì, ma anche no. Persone che hanno lavorato una vita e dato tutto per le famiglie e la comunità. Ci colpiscono, però, i giovani sani che si ammalano, non capiamo il perché. Alcuni ne abbiamo tirati fuori, altri purtroppo no. Cardiopatici e diabetici sono i più a rischio».

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Anche il recupero post guarigione, a volte, si rivela difficile, vero?
«Sì, il recupero è lento, ci sono malati che ti dicono di avere tanta stanchezza, una stanchezza che non va via del tutto. Avevamo cominciato a ricontrollarli, per vedere quali strascichi avrebbe lasciato il male, quali complicanze ai polmoni. Stiamo raccogliendo i dati».

Quali sono i reparti maggiormente sotto pressione?
«Terapia intensiva, pneumologia, le medicine, terza e seconda, che ora sono completamente convertite a reparti Covid. Il pronto soccorso, i reparti di chirurgia della mano e chirurgia specialistica sono stati convertiti a reparti Covid».

C’è stato un caso che l’ha colpita più di altri, nel suo percorso di assistenza ai pazienti e alle loro famiglie?
«Sì, una donna sessantenne che si presentò perché aveva un ittero. In ospedale ci siamo accolti che era un tumore metastatico. Inoltre era risultata positiva. La malattia era progredita e non potevamo fare nulla. A un certo punto ho parlato col nipote e col marito, che non la vedevano da 15 giorni. Stava morendo e non potevano vederla perché i parenti non possono entrare nei reparti Covid. Ci siamo organizzati, abbiamo fornito al marito i presidi di protezione individuale e siamo riusciti a consentirgli di salutarla proprio la sera prima che morisse. Mi ha colpito questa situazione. Quanto siamo soli, oggi, anche nella morte, a causa di questo virus».

C’è qualcuno che si sente di ringraziare in modo particolare per questa lunga battaglia al virus?
«Tutto il personale del dipartimento di medicina interna e specialistica, dagli oss agli infermieri, ai portantini per dedizione, abnegazione, orari. Ma non solo nella medicina interna. Voglio ricordare la fatica fatta anche dai nefrologi, dai diabetologi, endocrinologici, ematologi, i due infettivologi uno in medicina e uno in pneumologia fissi. Sono in turnazione nostra. Medici degli ambulatori, reumatologi, endocrinologi. Ho chiesto e sono venuti. Penso a Tropeano, per esempio. Ha chiuso l’attività ed è venuto su a lavorare. E adesso stiamo cercando di portare gli altri specialisti e i chirurghi. Dalla chirurgia della mano e dalla ginecologia hanno già cominciato a venire a darci una mano».



Come si immagina la fine di questo incubo e soprattutto quando?
«Non me la immagino ancora, purtroppo, la fine. Vedo ancora il nero, e non la luce, in fondo al tunnel. Spero che con dicembre la situazione possa cambiare, che arrivino i vaccini. Speriamo siano realmente efficaci, ma non sarà un vaccino neutralizzante in tutto e per tutto. E ci vorrà tempo».

Cosa possiamo imparare da questi mesi?
«Che è necessario aspettarsi altre epidemie, con altri virus e altri batteri. Dovremo rivedere l’assetto degli ospedali, che abbiamo edificato e tarato su malattie degli anni Ottanta e Novanta. Dovremo anche ripensare alla prevenzione dalle malattie trasmissibili. Dobbiamo pensare in maniera diversa la sanità sia come strutture sia come organizzazione».

E nel frattempo continuare a lottare, fuori e dentro le mura dell’ospedale. Nella cura e nella prevenzione.
Per non finire in ginocchio ma per operarlo al volo, tornando su quelle scale, stavolta in discesa, più forti di prima e il più presto possibile. Ricorda qualcuno?
 

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