Il blitz di CasaPound, lo storico: «È stato un atto di aggressione. Il ritornello del "ha fatto anche cose buone" è figlio della mancanza di un percorso di autocritica»

«Il metodo usato ha assonanze evidenti con lo squadrismo, è stato un atto di aggressione alla vita di un’istituzione. Bisogna fare attenzione, però, a non entrare nella polemica faziosa». Il professor Roberto Chiarini invita a epurare il giudizio da facili semplificazioni di fronte a episodi come quello avvenuto martedì scorso in Consiglio regionale a Trieste, quando un gruppo di manifestanti di Casa Pound ha fatto irruzione in aula per sollecitare interventi decisi contro l’immigrazione.
Ordinario di Storia contemporanea all’Università di Milano, ora in pensione, Chiarini è presidente del Centro studi e documentazione sul periodo storico della Repubblica sociale italiana e fa parte del comitato scientifico del Premio Friuli Storia.
Quella del fascismo è una categoria interpretativa adatta a spiegare l’azione di Casa Pound?
«Sì, trattandosi di un’aggressione alle istituzioni di stampo squadrista, portata avanti da una forza politica che non ha mai fatto mistero del proprio programma neofascista. Questo però non deve far gridare a facili allarmismi: un conto è un’azione di stampo squadrista, altra cosa è parlare di una rinascita del fascismo. Sembrano distinzioni da azzeccagarbugli, ma la nostra comprensione del fenomeno e dunque i nostri provvedimenti per arginarlo dipendono da un giudizio che non può essere grossolano, ma dev’essere raffinato».
Come difendere le istituzioni da questo tipo di aggressioni?
«Lo Stato ha già al suo interno gli anticorpi per questo genere di attacchi: la legge Scelba e la legge Mancino sono strumenti di salvaguardia democratica. Se venissero applicate più puntualmente, anche nei confronti di Casa Pound, episodi del genere potrebbero essere fermati sul nascere. L’impressione, invece, è che a tutte le forze politiche convenga gridare al pericolo fascista e al tempo stesso lasciarlo agire. Questa ambiguità lede allo Stato».
Sulle pagine di questo giornale il professor Andrea Zannini ha paragonato l’irruzione di Trieste a quando Mussolini minacciò di trasformare l’aula di Montecitorio in un bivacco per i propri manipoli.
«L’atto in sé non può che essere fascista nel metodo, ma le proporzioni fanno la differenza: al momento della marcia su Roma, Mussolini aveva dalla sua duecentocinquantamila armati, che avevano già dato prova della propria violenza. Le forze antidemocratiche come Casa Pound sono una minaccia reale per le istituzioni, ma il paragone non regge: cento anni fa l’Italia stava attraversando una guerra civile».
Oggi come allora in Italia la rappresentanza democratica sta attraversando un periodo di crisi.
«In tutto il mondo la forma di Stato liberal-democratica è in crisi. Da un lato il potere esecutivo travalica sempre più quello legislativo, dall’altro è crollata la fiducia nel sistema partitico, che è il caposaldo di ogni democrazia rappresentativa. Non si tratta di una crisi contingente, bensì di un fenomeno strutturale, che ha come sua realizzazione l’ascesa delle forze anti-politiche».
In questo clima di crisi si possono individuare gli stessi presupposti che portarono all’avvento del ventennio fascista?
«La democrazia liberale come la conosciamo oggi è destinata a cambiare, ma le caratteristiche della crisi odierna non prefigurano certo un esito totalitario e fascista. In questa fase storica gli elettori vivono in preda all’insicurezza e per questo chiedono l’uomo forte. Ma non chiedono un regime anti-democratico. Questo ci deve dare un po’ di fiducia. Vale ancora quello che nel 1921 Mussolini disse a D’Annunzio: per instaurare una dittatura sono necessari l’esercito, l’opinione pubblica e l’establishment. Non vedo né nell’opinione pubblica né negli intellettuali un attacco così frontale, sistematico e forte alla democrazia come nei primi decenni del Novecento. Le riviste pubblicate in Italia in quegli anni testimoniano un anti-parlamentarismo feroce e diffuso, da Prezzolini a Papini, da Gramsci a Togliatti. Questo perché la nuova generazione di intellettuali post-risorgimentali non era solo disinnamorata, ma voleva chiudere l’esperienza democratica. Oggi ci confrontiamo con forme di plebiscitarismo e di leaderismo che forzano la democrazia, ma occorre fare dei distinguo: così come la calata dei Longobardi in Friuli era diversa dall’occupazione austriaca, allo stesso modo l’ascesa del Fascismo era altra cosa rispetto al contesto odierno».
Eppure il ricorso al fascismo è costante nel dibattito pubblico.
«Oggi utilizziamo il termine fascismo come sinonimo di un attacco alla democrazia in vista dell’istituzione di un regime pienamente dittatoriale. L’abuso di questo termine porta a degli evidenti errori interpretativi, oltre che a delle forzature storiche. Per fare un esempio spicciolo, gridare all’uragano quando invece è in arrivo un acquazzone può essere controproducente».
Dunque il fascismo è un fatto storico da relegare al passato? Oppure è un fenomeno eterno, come sosteneva Umberto Eco?
«Il fascismo inteso come esperienza dittatoriale imperniata sulla figura di Mussolini non può ripresentarsi. Tuttavia è reale il pericolo di un affossamento della democrazia e dell’emergere di una forma di governo non liberale e non rappresentativa, anche se ciò non implica meccanicamente il ritorno alla dittatura fascista. Le parole sono importanti: in Italia concepiamo solo l’opposizione tra democrazia e Fascismo, una visione fin troppo semplificata che inaridisce il dibattito politico. Tra il modello totalitario e la democrazia ci sono mille approssimazioni ed è compito dello storico distinguerle fin nei particolari».
Fatti come quelli di Trieste smascherano questa ambiguità di fondo e ci invitano ad approfondire cosa fosse il fascismo nella sua complessità?
«L’Italia non si è mai sottoposta ad un esame di coscienza relativo al ventennio fascista. Nel 1939 gli italiani erano nella gran maggioranza fascisti, per costrizione e per educazione, ma sostanzialmente fascisti. Ci sono biglietti di annuncio della nascita del primogenito in cui si vede l’infante con il fez sul capo, tale era l’entusiasmo dopo la proclamazione dell’impero. A guerra finita il Movimento sociale italiano, ovvero il ricettacolo degli ex militanti fascisti, raccolse appena il 2 percento delle preferenze: dove erano finiti gli otto milioni di iscritti al Partito fascista? C’era stato un percorso di autocritica? No e questo peccato di fondo lo paghiamo ancora oggi. La frase “ha fatto anche cose buone” testimonia come una parte della cittadinanza non comprenda la distinzione concettuale tra dittatura e democrazia. In relazione al Fascismo si sono consolidate nell’opinione pubblica delle grandi banalità. Lo stesso dibattito sul Museo del fascismo di Roma poteva essere gestito diversamente: c’era l’ovvio rischio divenisse un punto di riferimento per i nostalgici, ma testimoniava anche l’esigenza di un’adeguata conoscenza storica, senza la quale cadremo sempre nelle semplificazioni. Che non sono un presidio democratico».
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