I genitori di Mazzega pronti a incontrare la famiglia di Nadia: "Francesco si è ucciso perché nessuno credeva al suo pentimento"

UDINE. Due anni e più di sofferenza continua, acuta, palpabile. Di vertigini per ciò che era stato e per ciò che sarebbe stato. E anche di amore, quello che soltanto i genitori possono verso i figli.
E infine l’abisso e il silenzio: il gesto estremo che non contempla appelli. Il calvario che i genitori di Francesco Mazzega hanno affrontato, dal giorno in cui il figlio allora trentaseienne uccise la fidanzata ventunenne Nadia Orlando, la sera del 31 luglio 2017, a Vidulis di Dignano, alla notte della non meno drammatica decisione di togliersi a sua volta la vita, il 30 novembre scorso, nel giardino della casa di Muzzana del Turgnano in cui si trovava agli arresti domiciliari, è il capitolo più nero di un libro cui nessuno potrà mai restituire un lieto fine.
Un libro in cui le pagine della sentenza della Corte d’assise d’appello di Trieste, che ventiquattr’ore prima del suicidio aveva confermato la condanna a trent’anni di reclusione inflitta in primo grado, diventano ora ulteriore motivo di dolore per chi è rimasto e le ha lette.
Una bomba che sconquassa il cuore e detta le parole: quelle finora taciute, per riservatezza e per rispetto verso la famiglia della vittima, e ora finalmente liberate, per la prima volta con un giornalista.
COSA C'È DA SAPERE SULLA VICENDA
«Francesco non era un mostro e neppure la persona descritta dai giudici», dicono mamma Eda e papà Lorenzo, uniti come e più di sempre, anche dalle lacrime. Le motivazioni del verdetto che, oltre a negare all’imputato i margini per una riduzione della pena, l’aveva aggravata con ulteriori tre anni di libertà vigilata, sono state depositate qualche giorno fa.
E per la famiglia sono state come sale su una ferita aperta. «Mio figlio Francesco si rendeva perfettamente conto della gravità di quello che era successo, di quello che lui aveva commesso, e ne portava il peso – dice la mamma –. In questi due anni il tormento non l’ha mai abbandonato: riusciva a prendere sonno soltanto nelle prime ore del mattino, ma non durante la notte».
E loro, i genitori che anche da lontano e in silenzio non lo lasciavano mai solo, lo sapevano bene. «Riteneva che fosse giusto pagare una pena – continua la madre –. Si angosciava per il dolore che stava dando a noi genitori, anche se tentavamo, ovviamente, di alleviare questa sua sofferenza spiegandogli che quando ci si vuole bene si è pronti a darsi una mano nei momenti del bisogno. Ma neppure questo bastava.
E lui continuava a torturarsi per tutto». Era stato il tribunale del riesame, il 29 agosto 2017, a concedere i domiciliari con braccialetto a Mazzega. «È un soggetto incensurato, ben inserito nella società e con un lavoro stabile, che finora ha tenuto una condotta irreprensibile e ha avuto condizioni di vita individuale, familiare e sociale buone», aveva scritto il giudice estensore Enzo Truncellito.
Un omicida reo confesso, certo, ma questo non basta a lasciare una persona in carcere fino alla pronuncia della sentenza definitiva. E visto che i genitori si erano resi disponibili a ospitarlo nella villetta in cui lui, ormai indipendente, era da tempo uscito per trasferirsi nella vicina Spilimbergo, dalla cella era passato al salotto di casa. Non un premio, ma una decisione pronunciata «nel nome del popolo italiano», che aveva tuttavia scatenato indignazione e sconcerto da una parte all’altra della regione.
Oltre che ogni sorta di manifestazione, compresa la raccolta di quasi 17 mila firma in calce a una petizione consegnata in Regione per chiederne il ritorno in carcere.
«Quale genitore non si sarebbe comportato come noi, peraltro a fronte di un’ordinanza del tribunale?», chiede papà Lorenzo, ricordando «il dolore costante», nei giorni che seguirono, uno più eterno dell’altro, «nel vederlo così. Lo ricordavamo com’era prima e a noi faceva ancora più male. Ma dovevamo sostenerlo», continua, il volto buono e affaticato dalla tristezza.
«Se non abbiamo mai parlato, in tutto questo tempo, è per rispetto alla famiglia Orlando. Il loro dolore era anche il nostro, sin dall’inizio», spiega Lorenzo Mazzega. Si conoscevano appena e le due sole occasioni per scambiarsi un saluto, nell’annetto di relazione sentimentale dei figli, erano state entrambe il funerale di parenti. Finché non era arrivata la tragedia.
«Avevamo fatto pervenire da subito alla famiglia Orlando il nostro desiderio di incontrarli. E lo ribadiamo anche adesso. Da genitoi a genitori», scandiscono papà e mamma. Ogni parola pesa come un macigno, ma Eda sente di doverle pronunciarle. Lo deve a suo figlio. «Ritengo che togliendosi la vita, Francesco abbia voluto pagare con l’unico mezzo, con l’unico bene che aveva, il debito che sapeva di avere contratto con la famiglia Orlando», dice quasi d’un fiato.
«Nei primi mesi a casa, aveva sofferto parecchio per il fatto di essersi visto togliere dai giudici di Trieste i permessi che gli erano stati concessi dal tribunale di Udine», ricorda, accennando alle visite ricevute in momenti diversi da un paio di cugine.
«Eppure, il dottor Marco Bertoli, lo psichiatra che lo seguiva, riteneva che fossero incontri particolarmente utili e necessari per lui. Nostro figlio – continua la madre – era attentissimo a rispettare tutte le prescrizioni che gli erano state impartite. Pensi che mi aveva pregata anche di andare dai vicini e spiegare che in nessun modo avrebbe potuto rispondere a un loro eventuale cenno di saluto, qualora lo avessero visto seduto sul terrazzo o affacciato alla finestra».
Intanto, quattro mesi dopo il delitto, Mazzega aveva inviato una lettera ai genitori di Nadia. Si era scusato, ma le sue parole non avevano sortito alcun effetto positivo, acuendo anzi lo strazio di Andrea Orlando e della moglie Antonella Zuccolo.
Di pentimento l’imputato sarebbe tornato a parlare due anni dopo, davanti alla Corte d’assise d’appello di Trieste, prima del verdetto. «Sono incapace di autoperdoranarsi – aveva detto –, provo pudore anche a chiedere perdono e a volte penso che solo scomparendo potrei in parte lenire il dolore che ho provocato». Sperava che i giudici, ritirati in camera di consiglio, ne tenessero conto.
E invece, dopo il gup di Udine, a ritenere che meritasse il massimo della pena sono stati anche loro. E allora il mondo gli è crollato addosso di nuovo.
«Sa cos’è che secondo noi ha fatto precipitare le cose? Sentire in aula la Procura generale chiedere che gli fossero inflitti anche tre anni di libertà vigilata e che gli fosse revocata la misura dei domiciliari – dice la madre –. Ecco, in quel momento Francesco ha pensato che davvero non ci fosse nessuno che credeva in lui e nel suo pentimento».
Perché lui, a quell’orribile errore, voleva comunque cercare di porre in qualche modo rimedio. «Voleva immaginare che la sua vita potesse avere ancora un senso nel ripagare con una condotta futura positiva ciò che di male aveva fatto», spiega la mamma. «Pensava di prendersi una seconda laurea e magari di lavorare in qualche cooperativa», ricorda.
Lo aveva scritto anche il dottor Bertoli nelle sue relazioni. «Vive la realta con un senso di inutilità, con il desiderio di pagare il sociale per la perdita di Nadia, poter riabilitare se stesso e dimostrare quindi che la sua vita ha ancora un compito, può ancora realizzare qualcosa di utile per gli altri».
Espiare la colpa e insieme rieducarsi e diventare risorsa, insomma. «E invece, si è pensato addirittura che potesse scappare e che quindi era necessario riportarlo in carcere», osserva il papà, scuotendo il capo, ancora incredulo. Ma sorretto dalla solidarietà dimostratagli dai tanti compaesani che, a Muzzana, li conoscono e non hanno smesso mai di sostenerli.
«Ringrazio tutta la gente che ci è stata vicina e anche le forze dell’ordine che venivano a controllare Francesco a ogni ora del giorno e della notte e che si sono comportate sempre con discrezione, attenzione e rispetto», aggiunge. Non un mostro, il loro Francesco. «Era un bravo ragazzo, molto sensibile e che si impegnava con serietà in tutto quel che faceva».
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