Giuseppe Battiston: «L’operosità del friulano resiste ai cambiamenti»

Certo, la dizione una raddrizzata te la dà. Il peggio dello slang regionale finisce sepolto dalle a aperte e dalle o chiuse, a seconda. L’attore non scappa dalla pratica dell’eleganza verbale. Però quel ninin d’inflessione ti resta appiccicato addosso.
Distratto dalla chiacchiera informale gli sfugge il marchio udinese; poco male. Anzi. Peggio se si fosse romanizzato. Ao, passeme er sale, me so scottato col fero da stiro, mortacci tua.
D’altronde Giuseppe Battiston è di Udine, ventisette anni vissuti altrove aggiungono la cittadinanza del mondo, come si dice, lasciandoti intatto il senso del luogo natio. «Mica mi scordo di rientrare, casa mia è comunque casa mia, sarei un ingrato. Famiglia, amici, odori, sensazioni, dopo un po’ ti mancano. E allora pigli un aereo e torni. Hai bisogno di un abbraccio diverso da quello convenzionale. Fatto il pieno, riparti. So che non potrei restare, il mestiere è notoriamente nomade e richiede spazi frenetici».
Giuseppe è ancora stordito dall’onda d’urto di ovazioni veneziane per lo Zoran, il mio nipote scemo di Matteo Oleotto (e suo), film di lunga gestazione, esploso in Laguna e con ancora buona vita da vivere. Si trattiene dall’uscire allo scoperto. Lo farà il 14 novembre per mano della “Tucker” distribuzione. Un total friulgiuliano con essenze drammaticamente comiche, immerso com’è nel clima carsico delle osmize del buon bere e del genuino mangiare.
- Le rubiamo il tempo necessario, Battiston. Conosciamo i suoi programmi inflessibili. Sa, i giornalisti hanno le orecchie tese. Intanto un parere spassionato. Vizi e virtù della dinastia friulana. Così, a freddo.
«Il pregio è l’operosità. Il difetto? Se l’operosità è fine a se stessa. In quasi tre decenni di perlustrazione peninsulare mi sono accorto che non siamo proprio tutti uguali. Da noi si lavora con una coscienza diversa. La testa è più bassa. Il furlan è abile, se la tira sempre fuori».
- Non si sta per caso confondendo con cinquant’anni fa? Forse l’andazzo è diverso.
«L’evoluzione è compresa nel prezzo. Ha la facoltà di ribaltare il significato delle cose. E delle persone. E del clima. Talvolta è involuzione, più spesso lo è. Si arretra. La solidarietà è ridotta all’osso, tanto per dirne una. Il rispetto, boh, sparito. Ovunque, intendo. Il twister ha fatto saltare per aria pure noi. Inevitabile».
- Riprendiamo il filone Zoran. Un caso alla Mostra. Bersagliato da attenzioni particolari, non riservate a chiunque. Visto da fuori è magnifico e non è piaggeria, ci creda. Come l’ha visto lei da dentro?
«Volevamo raccontarci senza scomodare la banale patina di ritratti usurati. Un pezzo di terra sormontata da cieli grigi, che vuoi o no ti cambiano l’umore e acuiscono la malinconia. Ci tenevamo a marcare questo particolare climax emotivo friulano e molto reale. Il mio Paolo è un balordo, solo, afflitto e sconfitto. Bevucchia, certo, è un beone, ma non un alcolizzato. Mi ha infastidito su certe recensioni leggere “ubriacone”. A parte una scena dove si scatena col gomito alzato, avendone peraltro i motivi, sa quando smettere».
- In Italia ci additano sulla pratica dell’ingollo alcolico, non è una novità.
«Non capiscono la nostra cultura del vino. È la bevanda della convivialità, dell’amicizia. Chi lo produce freme dalla voglia che tu la assaggi, non è istigazione, è condivisione di emozioni sensoriali. Spiegalo tu al popolo foresto».
- Ce la ricordiamo ragazzo prodigio al Palio studentesco, più o meno a metà degli Ottanta e nel suo timido approccio cinematografico in Italia-Germania 4-3. Sono seguiti oltre cinquanta film e tantissimo teatro. È lo stesso cinema di allora o, per dirla alla Nicholson, qualcosa è cambiato?
«Girano meno soldi. Io mi ritrovo con l’identico credo di allora: autonomia. Scelgo ciò che mi diverte. Già sei costretto a startene ore e ore davanti alla cinepresa, almeno te la spassi. Altrimenti ti ammali. Vale anche per il teatro. Arte più sofferta e faticosa. Il teatrante è un commesso viaggiatore. Infila in valigia il suo spettacolo e lo propone alla gente».
- In dicembre si ripresenterà sul palco di Contatto del Css. La scorsa stagione l’applaudimmo con Macbeth, stavolta l’applaudiremo con L’invenzione della solitudine, un figlio a un bivio.
«Non potrei rinunciare a una tournée all’anno, né tantomeno evitare uno sguardo sul pubblico a me più caro».
- Intanto la vedremo e l’ascolteremo a pordenonelegge. A breve. Domenica 22 assieme a Pierluigi Cappello. Un insolito ensemble...
«Guardi, pur evitando i convenevoli, che solitamente aborro, è un onore recitare il suo romanzo Questa libertà. Pierluigi è un grande poeta e un grand’uomo».
- Lei non si fa mancare davvero alcunché. Si è rimesso in moto sull’ennesimo set. Quale? Perdoni la curiosità.
«Di nulla. Lecita. Una storia curiosa, s’intitola Pizza e datteri. Un insieme di disperati s’intestardisce di costruire una moschea a Venezia. Una mescolanza di significati forti, glissando sulla risata nuda e cruda».
- Si è fatto un’idea di quest’Italia multietnica e multicolor?
«Lo scambio culturale, quand’è reciproco, onesto e rispettoso, libera dall’egoismo di campanile. Esistono più mondi, facciamoci un pensiero serio».
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