Gaspardo, settant’anni in Contrada: «Ma la mia Pordenone non c’è più»

PORDENONE. Tutto è cominciato una mattina di maggio. Era il 1972 e nella presidenza della “Giovanni Antonio” sedeva il professor Angelo Luminoso. Davanti a lui un ragazzino di 12 anni, il figlio un po’ ribelle di un commerciante già famoso e stimato: Umberto Gaspardo.
Non era la prima volta che Silvio Gaspardo entrava in quella stanza, quella mattina sarebbe stata l’ultima. «Lei è espulso». Sulle cause, meglio non approfondire. Ma sembra ci sia di mezzo un compasso dimenticato.
Quarantaquattro anni dopo – oggi alle 18, a palazzo Gregoris – Silvio Gaspardo presenta il libro (È finita un’epoca. la mia vita da commerciante) che ha scritto per celebrare i 70 anni del negozio che suo padre aprì nel 1946. Un diario che per noi ha aperto in anticipo.
«Ho cominciato a lavorare il 29 maggio 1972...». Quel giorno di maggio il padre, quando seppe dell’espulsione, non fece scenate, ma un discorso chiaro: «Non voglio vederti a spasso tutta l’estate. Da lunedì verrai in negozio a collaborare e in autunno, oltre a lavorare, studierai per prendere la licenza media alle serali».
E per il ragazzino ribelle – che andava in giro con i braccialetti, portava i capelli lunghi legati con una fascetta, vestiva stravagante e voleva fare il cantante – si sono aperte le porte di un mondo. «Ancora oggi apro e chiudo quella porta, come dico con orgoglio a qualche cliente. Pochi sono i commercianti che possono fare altrettanto».
Settant’anni. Una vita. Bianchieria maschile, camicie e cravatte vendute a mezza Pordenone («ma a comprare sono le donne, forse perché gli uomini sono un po’ pigri...»), il racconto di una città che è cambiata e che oggi come tutto il mondo si appiattisce gli outlet e sui negozi tutti “uguali”.
«È una delle cose che mi danno più fastidio, il pensiero unico della fantasia, le vetrine pensate da un “esperto”». Lui, che delle vetrine ha fatto un marchio di fabbrica: i disegni dei figli, lettori in carne e ossa per Pordenonelegge, i giocattoli, i telefonini usati, una Vespa...
Dunque, il padre. Umberto Gaspardo, classe 1912, comincia a lavorare tra le due guerre come garzone nei negozi di abbigliamento della città.
«È stato anche da Romor, il nonno di Guido, che ancora adesso vende moda maschile in via Bertossi». Dopo la Liberazione, la città è un fermento. Umberto ha voglia di fare e si mette in proprio. Individua subito il settore che gli porterà tanta fortuna.
«Mio padre aveva capito – racconta Silvio – che la specializzazione e la qualità lo avrebbero portato lontano». L’idea è quella giusta. Dal 1951 il negozio è nella sede della Contrada, quella dove ancora oggi entrano i clienti. Ma l’attività esiste dal 1946: è la più “antica” di corso Vittorio.
Il piccolo Gaspardo guarda lavorare il padre e gli ruba il mestiere, Umberto gli lascia tanta libertà: «Mi ha insegnato tutto, senza dirmi niente».
«Tutti pensano: la parte più difficile è vendere. No, è scegliere. Arrivavano i rappresentanti. Me li ricordo tutti: i loro abiti, le loro auto piene di scatoloni. La merce sparsa sul bancone. Le cravatte, migliaia. Mio padre sfogliava i campionari con le dita, come si fa con un libro. Diceva: “Questa. Piace a me, piacerà ai miei clienti”. Eccolo, il segreto: sapere in anticipo quel che la gente comprerà. A quel tempo, a metà degli anni ’70, vendevamo 1.800 cravatte all’anno. Io guardavo e imparavo. Lui capiva e piano piano mi cedeva il comando».
L’attività cresce, il giro d’affari si moltiplica, Sivio Gapardo diventa il “padrone” del negozio. Il vecchio Umberto è sempre lì, ma la sua presenza in negozio è sempre meno continua. Per Silvio basta gelati da Zampolli, basta confetti da Pessa. Bisogna pensare al negozio.
Il 15 aprile 1978 è un altro giorno da segnare in rosso sul calendario di questa storia. Silvio vede per la prima volta la sua Marina. Si sposano nel 1986. Sono insieme da trent’anni, li vedi in negozio e sembrano ancora fidanzati.
Quando lui la incontra per la prima volta le fa un complimento: «Sei avvenente».
«Ero poco più di una bambina, pantaloncini corti e maglietta. Forse sarò arrossita. Avvenente... avvenente. Sul vocabolario ho cercato il significato della parola. E ho deciso che andava bene». Marina, con la fedele Tania, è una presenza rassicurante in negozio. Gli occhi azzurri sorridono sempre per tutti.
«Gli anni sono passati, sono arrivati i figli, l’attività è cresciuta. E io non ho mai tradito la mia idea di negoziante. Anche quando è scoppiata la crisi, quella grande del 2008. I saldi, per esempio: da me non esistono. Come fa il cliente a sapere quando l’ho fregato? Prima o dopo? E così mi è venuta l’idea: mettere nelle borse, insieme alla merce, un volantino: poche parole per raccontare come lavoro, come scelgo la roba che vendo, perché vedo i saldi come fumo negli occhi».
È un altro risvolto dell’anima creativa di Silvio. E il ragazzino che si legava i capelli col nastrino e voleva fare il cantante si è messo anche a scrivere libri.
Due sul Camino di Santiago di Compostela (Più testa che gambe e Eppur son pigro), sul suo adorato gatto che non c’è più (Ho perso un fratello), sulle fiabe inventava per i suoi ragazzi erano piccoli. E continua a studiare le sue vetrine “creative” con la preziosa consulenza di tutta la famiglia.
E il futuro? Un sorrisetto sotto i baffi. «Vedere vincere la mia amata Inter e dedicarmi alla fotografia. Ma non quella fatta con i macchinoni da duemila euro. Basta il telefonino e un po’ di testa».
E poi un Camino all’anno, magari cedere l’attività. Ma poco alla volta. «Silvio ha bisogno di esprimersi, sarò alla sua altezza e mi metto in gioco – chiude Marina –. E ora mi scusi, devo andare a fare la spesa...».
«Ho cominciato a lavorare il 29 maggio del 1972...». La dedica del libro dei ricordi è l’aforisma più famoso degli sgobboni che si fingono sfaccendati: «Il lavoro mi affascina, mi piace. Potrei stare seduto per ore a guardarlo».
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