Enrico Galiano conquista il Nastro d’argento con il film “Il punto di rugiada”
Al Maxxi di Roma la consegna del riconoscimento al team di scrittura. A imporsi è stato il soggetto scritto dal professore di Pordenone per Dino Risi

Un tema difficile, scomodo, affrontato con leggerezza. Una tenerezza che colora di senso stanze vuote di memoria, piene di cicatrici e sogni infranti, di amori da rammendare e note da stonare. Il punto di rugiada di Marco Risi è miglior soggetto originale ex aequo con Another End di Pietro Messina. Ieri al Maxxi di Roma la consegna del Nastro d’Argento al team di scrittura del film Enrico Galiano, Riccardo De Torrebruna e Francesco Frangipane. Per lo scrittore pordenonese Galiano è l’approdo di una storia scritta tutta d’un fiato, maa vissuta e pensata, a lungo.
Un riconoscimento prestigioso professore. E dire che è nato da una figura di “emme”...
«Eh sì. È nato quasi con uno stalking che misi in atto nei confronti del regista. Al tempo ero un professore sbarbato che aveva scritto una storia ambientata in una casa di riposo, un libro di dimensione locale realizzato sulla base di un’esperienza alla Casa Serena di Pordenone. Mi sembrava che contenesse qualcosa di prezioso, così quando Marco Risi venne a Cinemazero a presentare Fortapàsc decisi di portarglielo nella remotissima speranza che gli desse un’occhiata e mi suggerisse qualcosa, solo che mi confusi e lo consegnai alla persona sbagliata, e quando finalmente lo incontrai, gli dissi che avevo già fatto vedere il suo film ai miei alunni, scaricandolo illegalmente».
È andata bene lo stesso però.
«Contro ogni mia previsione, un paio di settimane dopo Risi mi chiamò per dirmi che gli era piaciuto, ma che mancava una storia per farci un film. Gli chiesi 24 ore di tempo: quella notte non dormii e buttai giù la storia di un ragazzo obbligato dal giudice a un anno di servizi sociali alla casa di riposo Villa Bianca per aver provocato un incidente dopo essersi messo al volante ubriaco».
Una vena autobiografica dunque. Com’era la sua Villa Bianca?
«Si chiamava Casa Serena e non era una struttura di lusso, ma i profili di alcuni personaggi sono nati lì. E pure l’idea di affrontare temi difficili come l’eutanasia: Dino infatti chiede aiuto a Carlo per farla finita. Una realtà che ho conosciuto in quel lontano 2004, quando ho incontrato persone che dovevano essere sorvegliate e protette da quell’istinto. Ho percepito la distanza, quasi la rimozione collettiva sulle tematiche degli anziani. Una situazione, purtroppo, sempre più attuale, che a 27 anni ignoravo totalmente».
E il solco tracciato dal Covid?
«La fase della sceneggiatura è arrivata nel momento più drammatico della pandemia: gli anziani erano le prime vittime e ancora non si sapeva come sarebbe finita. Ci siamo accorti che non avevamo attivato sufficienti protezioni. Il film, con leggerezza, tocca anche questo tema».
Il protagonista, Carlo, sembra bloccato nel suo mondo effimero. Disancorato, anaffettivo. Dove lo ha conosciuto?
«Nella primissima stesura serviva un personaggio distaccato, giovane ma senza più luce negli occhi, una condizione che, purtroppo, tocca molti giovani: ci troviamo di fronte a ventenni malati di troppa esperienza, originata dal mondo virtuale, da un eccesso di stimoli e di informazioni che può anestetizzare le emozioni».
E allora serve un punto di rugiada. Il suo qual è?
«I miei quarant’anni con la nascita di mia figlia, il primo romanzo “Eppure cadiamo felici”, tutte queste cose ravvicinate. Ma lo è stata anche l’esperienza a Casa Serena, quando ebbi l’incarico di assistere alcuni anziani al nucleo Alzheimer».
È un film corale in cui ogni personaggio ha una realtà pesante che ha cercato di raccontare, senza riuscirci. Abbiamo perso la capacità di ascoltare?
«A prevalere a volte è la paura di ascoltare l’altro, specie quando ha storie venate da tristezza ed è difficile anche esternarle in una realtà in cui tutti sono chiamati a essere felici, performanti, sul pezzo. Non è semplice raccontare una storia che comincia con un vecchio che cerca di buttarsi dalla finestra».
Lei ha affermato che questo paese può essere salvato dagli insegnanti. Come?
«Ho riadattato e fatto mia la frase di Gesualdo Bufalino per il quale “la mafia potrà essere sconfitta da un esercito di maestri elementari”. Il ruolo dell’insegnante può essere la chiave di volta nella formazione dei bambini quando si tratta di coltivare l’autostima, le passioni, i talenti».
E non bisogna smettere di imparare. Ma quanto è faticoso essere eterni ripetenti?
«È faticosissimo. Significa mettersi in discussione continuamente, coltivare il dubbio, accantonare le certezze. Non è facile quando si hanno quaranta, cinquanta o sessant’anni».
Apprezzato insegnante, scrittore, autore di soggetti cinematografici di successo. Che altro?
«Marito, padre di famiglia e forse ci aggiungerei anche influencer, nella misura in cui questa attitudine può contribuire a diffondere buone idee e pensieri».
Gli “ospiti” di Villa Bianca danzano, ridono, ma nelle case di riposo ci sono anche i “vecchi”. E sono soli. Come li raggiungiamo?
«Anche solo parlarne può essere un modo: il libro, alla sua uscita, generò un dibattito e devo dire che la stessa Casa Serena subì alcuni cambiamenti, la struttura fu ampliata, modificata, ci fu un maggiore ascolto. Forse, sarebbe utile ridurre le distanze, favorire maggiore connessione come accade in Olanda, dove esistono delle minicittadine in cui le strutture per anziani sono a contatto con asili e scuole».
Il suo prossimo impegno?
«Ora porto in giro una sorta di monologo ispirato al mio ultimo libro “Una vita non basta” che parla del rapporto fra padri e figli, fra insegnanti e studenti e cerca di diffondere l’idea che i ragazzi non sono vasi da riempire, ma fuochi da accendere. A settembre, uscirà il libro che sto finendo di scrivere con Salani».
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