Dichiarata non operabile: corsa “salvavita” a Udine

Un intervento al Santa Maria apre nuove frontiere per il trattamento dei tumori. Il professor Andrea Risaliti: scelti per sperimentare una tecnica innovativa

UDINE. Per gli specialisti che l’avevano visitata non era operabile: troppo esteso il tumore che l’aveva colpita fino a pregiudicare due terzi del fegato. E così per lei, 49 anni residente a Roma, non era rimasto che il trattamento chemioterapico e un percorso clinico tutt’altro che promettente. Poi a Roma è spuntata la candidatura dell’ospedale di Udine a eseguire un intervento che ora rappresenta la nuova frontiera per intervenire sui tumori al fegato giudicati inoperabili.

Per Andrea Risaliti, direttore della clinica chirurgica e del Centro trapianti dell’Azienda ospedaliero universitaria, fresco di nomina a professore ordinario all’università di Udine, non poteva esserci modo migliore per festeggiare l’investitura ufficiale.

Questo il commento del direttore generale Mauro Delendi che assieme a nuovo direttore sanitario Giampaolo Canciani ieri ha introdotto l’intervento del professor Risaliti.

Pochi centri al mondo potevano operare con successo in questo frangente.

«Si tratta di una nuova tecnica chirurgica che consente di intervenire efficacemente in tempi rapidi su pazienti prima giudicati non operabili e sui quali il trapianto di fegato non è possibile per l’altissimo rischio di recidiva - ha spiegato Risaliti –. La decisione di utilizzare una procedura così innovativa – ha aggiunto – non giunge casualmente, ma è stata pianificata nel modo più accurato nei giorni precedenti l’intervento, infatti ci si è potuti giovare dell’esperienza maturata a Londra dal dottor Dario Lorenzin, dirigente medico della clinica chirurgica che ha avuto la possibilità di approfondire le modalità di una tecnica così complessa e ancora poco nota».

La donna è stata sottoposta a due successive operazioni attraverso le quali la piccola porzione di fegato sano, appena 250 centimetri cubi, è stata divisa dal fegato malato che non era possibile asportare visto che la paziente non sarebbe sopravvissuta a una probabile insufficienza epatica. Nè, ha spiegato il professor Risaliti, era possibile ricorrere a un’embolizzazione radiologica della vena porta poichè i tempi per una rigenerazione del fegato sarebbero stati superiori a 40 giorni e lo stadio avanzato del tumore non lasciava tempo sufficiente.

E così, si è optato per un duplice intervento di separazione del fegato associato alla legatura della vena porta con epatectomia. Con il primo, durato 4 ore, l’équipe chirurgica affiancata da quella del professor Della Rocca ha diviso in due parti il fegato, la sezione malata è stata quindi isolata e “impacchettata”. «Nell’arco di sette giorni il fegato sano si è rigenerato crescendo da 240 a 690 centimetri cubi di volume crescendo del 110%».

Quindi si è passati alla resezione della parte malata e alla chiusura dell’arteria attraverso la quale affluiva il sangue.

Un esperimento pienamente riuscito: «La paziente sta bene ed è in via di dimissione» ha annunciato Risaliti. L’unico esperimento simile portato a termine in Italia fino ad ora fa capo al gruppo chirurgico di Ancona. Sono solo 16 i centri al mondo dove attualmente può essere eseguito, dalla Germania all’Argentina al Nord America, dove è stato sperimentato 9 mesi fa. Una tecnica che staglia nuove frontiere per pazienti prima considerati senza speranza.

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