Buja informò il mondo: disastroso terremoto in Friuli

BUJA. «Quella notte successe di tutto» anche a Buja. Prendiamo in prestito le parole degli assessori in carica il 6 maggio 1976, Sergio Burigotto e Giovanni Fabbro, per raccontare il terremoto che distrusse il Comune con 33 frazioni ora diventate vie a tutti gli effetti.
Da uno di quei borghi, Ursinins Grande, il radioamatore Italo Candusso fece sapere al mondo che il Friuli e i friulani giacevano inermi sotto il peso delle macerie. Le radioline accese chissà dove aggiornavano le notizie che si facevano sempre più drammatiche.
E mentre i primissimi bilanci provvisori arrivavano ovunque, il sindaco di allora Eddi Giacomini si spostava da Santo Stefano ad Avilla, da Urbignacco a Madonna per arrivare fino a Tomba, la frazione più distante dal centro, e annotava su un piccolo quaderno i nomi dei morti e le richieste di aiuto. Lungo l’elenco delle vittime, erano 49, decine i feriti, migliaia i senzatetto.
A Buja lo spettacolo era terribile. Le frazioni erano quasi rase al suolo e le strade piene di macerie. L’alba rese visibile la dimensione della tragedia, una dimensione impossibile da immaginare nel buio della notte che segnò per sempre il Friuli.
La mattina del 7 maggio l’immagine dell’anziano parroco di Buja, don Angelo Cracina, che camminava sopra i calcinacci e i ruderi delle case rimase impressa nelle menti dei residenti e dei cronisti arrivati sul posto qualche ora prima: «Cose di questo genere - disse il sacerdote - le ho viste solo durante la guerra». In effetti, quel movimento ondulatorio e sussultorio lasciò sul campo morti e ferite assieme alle pietre del duomo medievale, delle chiese di Madonna, di Santa Caterina di Urbignacco, dell’Annunziata di Tomba, del municipio e di decine e decine di abitazioni.
In mezzo ai detriti c’era anche il corpo di Nicola Minisini, aveva solo 4 anni. Rimase soffocato nel suo lettino. Ma questo è solo uno dei nome scritti ancora sulle lapidi, lo citiamo perché fa sempre troppo male pensare alle vite spezzate dei

«Non sapevamo cosa fare, arrivavano i volontari e noi seguivamo i loro consigli. All’opera c’erano gli uomini dell’Esercito e della Marina, molti di quei ragazzi avevano già vissuto situazioni analoghe e, discretamente, ci insegnavano a operare in emergenza» ammette Fabbro riconoscendo agli anziani, abituati alle guerre, una maggiore capacità di sopportazione rispetto a quella dei giovani.
Quella notte quasi nessuno piangeva. Neppure quando udivano il piccolo Agostino Alessio, 9 anni, chiedere aiuto: «Mamma salvami, sto soffocando» ripeteva. Quella voce usciva da un piccolo foro tra le macerie di una casa crollata sotto la quale era rimasta imprigionata anche la nonna Maria. Erano vivi solo grazie a una trave portante che aveva creato una piccola nicchia. Era difficile mantenere la calma in un territorio che si estendeva tra 120 chilometri di strade.
No alla fossa comune
«È successo di tutto, certi particolari non si possono neppure citare. Si scavava a mano aiutati, in certi casi, dai mezzi meccanici messi a disposizione dagli artigiani. Ma quando si trattava di salvare una vita umana - sottolinea Fabbro - le pale meccaniche diventavano inadeguate perché, a loro volta, rischiavano di provocare altri crolli». A uno a uno i morti vennero portati al cimitero. Le salme allineate attendevano una sepoltura. Chi si trovò a operare in quell’inevitabile caos propose di creare una fossa comune, ma i cittadini di Buja si ribellarono. «Vogliono seppellire i morti in una fossa comune, deve venire subito qui» disse al telefono l’allora ufficiale sanitario e medico condotto, Ottorino Dolso, a Burigotto che all’epoca aveva la delega alla Sanità. L’assessore non se lo fece ripete e si precipitò in cimitero. «Sul cofano della mia auto firmai l’autorizzazione a seppellire i morti nelle loro tombe o nei loculi nel caso in cui non avessero avuto la tomba di famiglia». E così fu. I nomi delle vittime sono ancora ben evidenti nel camposanto di uno dei Comuni più disastrati del Friuli. «Il dottor Dolso si commosse - continua Burigotto - e si mise a piangere». Adesso non sarebbe più possibile firmare quel documento. L’iter “fai da te” fu uno dei segreti del cosiddetto modello Friuli anche durante la ricostruzione. Tra le tante soluzioni adottate per velocizzare la chiusura dei cantieri fu anche quella di sottoporre i plichi al controllo della Corte dei conti a lavori eseguiti.
Il ruolo degli alpini
In quei giorni caotici accanto ai volontari arrivati da tutta Italia operavano pure gli alpini. A Buja c’erano le sezioni della valle dell’Adige: Bolzano, Trento e Verona. «Gli alpini svolgevano un ruolo importante per la ricostruzione morale e per la solidarietà espressa alla gente. Vedere un alpino che portava fuori dalle case distrutte un solo mobile dava sicurezza alle persone che dovevano uscire dalle abitazioni» ricorda Burigotto citando un esempio per tutti: «Il Congresso americano attraverso i senatori italo-americani aveva raccolto 70 miliardi di vecchie lire per ricostruire i centri anziani e le scuole. I senatori vollero affidare alla direzione degli alpini la ricostruzione degli edifici, si fidavano più delle penne nere che dello Stato». A conferma di ciò, il Congresso espose i plastici degli interventi realizzati dagli alpini in Friuli sopra la cupola del Campidoglio americano.
I giovani amministratori
A Buja l’eco del Coordinamento dei comitati delle tendopoli arrivò lieve: «Qui eravamo defilati, non avevamo tanti big. Andreotti e Fanfani visitarono questi luoghi, ma nessuno prese in mano il mattone per lanciarlo contro Andreotti come successe altrove. La protesta era sempre contenuta». Fabbro riassume così l’estate 1976 con la gente nelle tendopoli in attesa dei prefabbricati. Lui come gli altri colleghi di giunta aveva poco più di 30 anni. «Avevamo appena rottamato i vecchi» afferma ricordando gli innumerevoli confronti con la gente. «Eravamo tutti giovani e amici, tra di noi c’era la massima fiducia - aggiunge l’ex assessore - tutti si fidavano di tutti.

Usavamo il buon senso. Avevo in mano il polso della situazione perché alle 5 del mattino, prima di andare a lavorare facevo il giro di tutta Buja. Un’abitudine questa che mantenni anche nel periodo della ricostruzione quando firmavo i decreti di pagamento dei contributi». Fabbro, di buon’ora, andava, personalmente, a verificare lo stato dei lavori.
I prefabbricati
Il 16 o il 17 settembre il commissario straordinario, Giuseppe Zamberletti, arrivò a Buja. Scese da un elicottero atterrato ad Avilla, era ospite di un suo amico di Varese che abitava proprio in quella frazione. «L’onorevole salì in piazza dove noi giovani amministratori stavamo valutando la situazione in un clima non certo tranquillo» ricorda Fabbro pensando alla gente con il morale a terra costretta a salire sui pullman diretti a Lignano. Il terrore di non tornare più a Buja era palese. «Di fronte a questa situazione, ci siamo avvicinati a Zamberletti e gli facemmo notare che a Buja una cinquantina di imprese non lavorava più. “Siamo disponibili a realizzare le infrastrutture per la posa dei prefabbricati in proprio” gli dissi e Zamberletti replicò: “Se fate le infrastrutture potete anche installare i prefabbricati”».

Gli amministratori accettarono e vinsero la sfida. Non potevano fare altrimenti anche perché lo stesso Zamberletti pose subito un paletto guardandoli dritti negli occhi: «Se mancate a questa fiducia lo rivelerò a tutti i giornali». Il terrore di finire sulle prime pagine per aver tradito la fiducia ricevuta da Zamberletti preoccupò non poco gli amministratori che subito chiesero finanziamenti adeguati. «Non vi preoccupate - queste le parole del commissario - i fondi ve li diamo noi in concessione». Zamberletti, insomma, finanziava i Comuni per realizzare, in concessione d’uso, le infrastrutture e i villaggi. «Fu predisposto un elenco prezzi in base ai quali i fornitori dei prefabbricati presentavano le loro offerte» insiste Fabbro ancora soddisfatto di aver dato da lavorare alle imprese locali per circa sei mesi. In pochissimo tempo, il modello per la realizzazione dei prefabbricati sperimentato a Buja venne esportato in buona parte della zona terremotata. Anche perché, a seguito della nuova emergenza provocata dalle scosse del 15 settembre, le richieste dei prefabbricati si moltiplicarono. «A nostro avviso - sottolinea Burigotto - questo fu il primo passo verso la costituzione della Protezione civile. Gemona rivendica questa primogenitura, ma noi sappiamo che quel modello è nato qui».
Il confronto con la gente
Nel bene e nel male, gli amministratori di Buja si confrontavano con la gente. Lo facevano anche quando, durante l’emergenza, dovettero affrontare il problema delle stalle distrutte.
E anche se il bestiame, con la supervisione dei tecnici dell’Ersa, era stato trasferito nelle strutture venete, restava il problema del taglio del fieno. Sulle soluzioni possibili ragionarono a lungo un funzionario della Regione, gli assessori e altri tecnici del luogo. «Volevano costruire un capannone - rivela Fabbro -, ma io non condividevo questa scelta. “Avete chiesto un parere agli agricoltori?” chiesi e li convinsi a farlo».
Esemplare la risposta: «Gli agricoltori decisero di fare la meda (grandi covoni all’aperto), risparmiammo così diverse migliaia di lire». Lo stesso accadde per lo stoccaggio del materiale edile che arrivava dalle fornaci. Gli amministratori locali convinsero i fornitori a lasciarlo nelle piazze vuote. «Il buonsenso - afferma 40 anni dopo Fabbro - favorì la ricostruzione del Friuli.
Partivamo tutti da zero, ci guidava solo la correttezza e il senso di responsabilità». In effetti le scelte fatte allora trovarono le risposte poi perché, tanto per tornare all’esempio delle stalle, delle 150 censite il 6 maggio 1976, nel dopo ricostruzione restò in attività appena una decina.
L’unica scelta che Fabbro non rifarebbe è quella della costruzione di tutti gli edifici scolastici dov’erano. All’epoca rifiutò il plesso unico, ma con il senno di poi e il calo della natalità forse era più opportuno. Nessun dubbio, invece, sorse quando si trattò di ricostruire il centro storico seguendo lo stesso tessuto viario. Anche Buja, dal punto di vista urbanistico, volle restare com’era e dov’era.
Non poteva essere altrimenti visto che nei giorni successivi al 6 maggio, gli amministratori bloccarono i bulldozer tedeschi impegnati nella rimozione delle macerie: «Se non li fermavamo - conclude Fabbro - avrebbero spianato Buja».
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