La testimonianza: «Una bimba fu travolta dalle macerie: era rientrata per salvare il cane»

«Avevo 10 anni e abitavo a Buja. Dopo sono cresciuta in fretta, necessariamente. Per noi friulani esiste un “prima” e un “dopo” 6 maggio: il terremoto rappresenterà sempre lo spartiacque tra due vite...

UDINE. «Avevo 10 anni e abitavo a Buja. Dopo sono cresciuta in fretta, necessariamente. Per noi friulani esiste un “prima” e un “dopo” 6 maggio: il terremoto rappresenterà sempre lo spartiacque tra due vite ed “epoche” diverse. Nei miei ricordi e nei sogni che ancora popolano le mie notti, le immagini sono in bianco e nero fino alla sera del 6 maggio, a colori, ma molto polverose, dalla mattina dopo». Inizia così il racconto di Flavia Papinutto, nata e cresciuta a Buja e ora residente a Roma.

«Il ricordo più netto di quella sera, oltre al rumore sordo del boato, allo scricchiolio delle pareti e alla polvere nelle narici, è la culla in cui dormiva mio fratello Michele di 5 mesi, che si muoveva avanti e indietro sulle ruote e la mamma che non riusciva a stare in piedi per afferrarla.

Piangeva e chiamava il mio e il suo nome. Stranamente - continua Flavia - mentre tutto tremava, la mia mente richiamò il Belice e i morti provocati da quel terremoto, la paura si impossessò del mio corpo impedendomi di urlare. Uscii da casa, il silenzio irreale rotto da pianti qua e là, da domande poste nel buio: zia dove sei?, Edy stai bene? Dov’è il nonno?. E quell’odore di zolfo urlava il dolore della terra squarciata.

Papinutto ricorda di aver pensato: «Domani non posso andare a scuola e la maestra Wilma non si arrabbierà! Non sapevo ancora - aggiunge - che la scuola di Madonna non c’era più». Alle prime luci dell’alba apprese dei morti.

«I telefoni erano muti e mio papà che lavorava a Milano non riusciva a contattarci. Appresa la notizia dal telegiornale, partì per tornare in Friuli e, man mano che il tempo passava, anche la radio dava il triste conteggio dei morti e i nomi dei paesi più colpiti: Gemona, Buja, Majano, Artegna. Con le lacrime che inondavano il viso, si avvicinava al Friuli. Giunse a Colloredo di Monte Albano nel cuore della notte.

Le strade erano interrotte dalle macerie e dovette cercare vie alternative. Trovò suo papà con la testa aperta da una profonda ferita causata da una tegola caduta mentre scappava. Ricordo ancora il pianto e la disperazione mia e di mia mamma mentre ci raccontavano della morte di una bambina figlia di amici che, dopo essere uscita di casa, lasciò la mano dei suoi genitori e rientrò per recuperare il cane. Qui fu sopraffatta dalla seconda scossa che fece crollare l’edificio.

Nei giorni seguenti, i militari buttavano la calce viva sopra le macerie per scongiurare le epidemie. Anche questo contribuiva a rendere spettrali i paesi. Poi la tendopoli e la baraccopoli. I volontari distribuivano le medicine e ci vaccinavano. Distribuivano anche giocattoli, provavano a dare una parvenza di normalità allestendo aule scolastiche sotto la pioggia con le tende allagate.

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