Vent'anni senza Bartali: chi era il campione Gino con quel naso triste da italiano allegro

Se ne è andato la notte del 5 maggio di vent’anni fa dopo aver giocato fino a tarda sera con i suoi nipoti a carte Gino Bartali. Da quel giorno Ginettaccio ci manca tantissimo. Ancor più in queste settimane di battaglia contro il virus, di isolamento, di corse che non si fanno.
“Gli è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare” usava dire. E quella frase, che poco gli piaceva fosse ripetuta, oggi non può non tornarci in mente, perfetta per questo nostro mondo moderno. Di lui, “di quel naso triste da italiano allegro” cantato da Paolo Conte, non ci mancano solo le grandi vittorie (due Tour, tre Giri, quattro Sanremo, tre Lombardia), non solo la rivalità con “l’Altro”, perchè senza Gino non ci sarebbe stato Coppi. Ci manca lo spessore di un personaggio, “Giusto tra le Nazioni” per aver salvato centinaia di ebrei dai campi di sterminio, che ha fatto la storia d’Italia. Quella con la “S” maiuscola.
Il Tour de France del 1938. Milano-Sanremo 1935, si presenta tra gli indipendenti un 21enne toscano, Gino Bartali da Ponte a Ema. Finisce quarto. Inizia tutto da lì. Subito il Giro d’Italia con la Frejus e un settimo posto che gli apre le porte della Legnano, squadrone per cui vince la corsa rosa del ’36. Pochi giorni dopo un incrocio terribile col destino: il 14 giugno muore durante una gara di dilettanti il fratello Giulio, di due anni più giovane. Bartali per un po’ non vuole saperne della bici, come farà 15 anni dopo il rivale Coppi dopo la tragica morte del fratello Serse.
Quindi il bis rosa nel 1937 e il debutto al Tour. Ha la corsa in mano, ma le Alpi gli sono fatali. Caduta nel torrente Calau, botte e polmonite: ritiro. Mussolini, come fece con Primo Carnera e la Nazionale del calcio bi-campione del mondo, tenta di farne un simbolo del regime. Gli vieta di correre il Giro 1938 per puntare tutto sul Tour: 4.694 km in 29 tappe e sei giorni di riposo. Bartali, guidato dal grande Costante Girardengo sull’ammiraglia, prepara il terreno sui Pirenei su Aubisque e Tourmalet e assesta il colpo decisivo sulle Alpi il 22 luglio salutando tutti sull’Izoard. Freddo poi l’incontro a Palazzo Venezia col duce, l’unico della sua vita. Rigorosamente senza camicia nera e con la spilla dell’Azione cattolica bene in vista.
I duelli con Fausto. «Ho un amico in meno», disse Bartali dopo la morte di Fausto Coppi stroncato da una malaria non riconosciuta in tempo dopo un viaggio in Africa il 2 gennaio 1960. Era vero. Coppi fu il suo acerrimo rivale: da quando nel 1940 lo battè al Giro a quando, dopo la guerra, dal Giro 1946 diedero vita alla rivalità delle rivalità. Bartaliani “contro” Coppiani, democristiani “contro” comunisti (anche se Fausto comunista non lo era di certo), in un dopoguerra in cui la bicicletta fu motore autentico dela rinascita dell’Italia.
Bartali batte Coppi al Giro ’46 per un pugno di secondi, perde nel 1947, al Mondiale di Valkenburg è celebre lo sciopero dei due in maglia azzurra: entrambi non volevano l’altro in maglia iridata. Sgarbi a raffica, eppure quella controversa e magnifica foto del passaggio della borraccia sul Galiber al Tour 1949 (uno scatto simbolo del ciclismo, in realtà “costruito” da un fotografo in moto) è l’emblema della loro amicizia. Se a Gino, Coppi mostrò per primo la foto del figlio Faustino, nato in Argentina dalla Dama Bianca, fu Bartali davanti alla bara di Fausto a stringersi in una lunga preghiera sostenendo mamma Angiolina.
L'epico bis alla Grande Boucle. Scrive Lisa Bartali, la nipote di Gino: «Il nonno Gino si allenava in tutte le condizioni climatiche. Mio babbo mi raccontò che un inverno Firenze fu colpita da un forte gelo. Gino scalpitava sulla sua bici e un amico in automobile lo vide : “Gino che fai, sali in macchina! Non vedi che nevica?” E lui scocciato: “Sì, proprio per questo sono in bicicletta, mi sto allenando! Non potrò mai sapere se al momento della gara nevicherà, pioverà o sarà sereno». Ecco la forza mentale di Bartali, più forte di tutto, anche di una guerra che gli portò via la parte migliore della carriera.
Il capolavoro Bartali lo fece nel luglio del 1948 vincendo il suo secondo Tour contro tutto e tutti. Aveva 34 anni, un’enormità per quei tempi, con quei metodi di allenamento, le biciclette pesanti come macigni e le strade bianche. Gli dicevano che era vecchio, Luison Bobet, più giovane di lui e orgoglio di Francia, ad un certo punto prese più di 21 minuti di vantaggio. Poi l’inesorabile rimonta, guidato in ammiraglia stavolta da Alfredo Binda, come vediamo a fianco in un momento delicato per la storia d’Italia. E dopo il 1948? A 38 anni, nel 1952 l’anno del trionfo di Coppi, Bartali fu quarto, stesso piazzamento l’anno dopo al Giro, l’ultimo: insomma eccolo l’“omino di ferro”.
Il bene si fa, il male non si dice. Città di Castello, 28 novembre 1954: qui si conclude la carriera di Gino Bartali, con un circuito degli assi su strade che lui conosceva bene perché aveva perscorso in lungo e in largo durante la Seconda guerra mondiale. «Allenamento, non mi posso fermare», gridava dopo il 1943 ai posti di blocco dei nazisti. Lui, già celebre per le sue imprese in bici, sfruttava la popolarità per trasportare, celati nel cambrone della Legnano, documenti falsi che andava a ritirare ad Assisi. Decine e decine di viaggi di vita, di speranza. «Se mi dovessero fermare non devo dire bugie, quindi non ditemi cosa devo trasportare. Lo faccio volentieri», diceva il campione. Nessun cenno o quasi a quanto fatto negli anni successivi, nemmeno a figli e nipoti. «Il bene lo si fa ma non lo si dice», era il suo motto.
Direttore sportivo, dirigente, pure giornalista, immancabile mito al seguito del Giro d’Italia per decenni. Nonostante l’età, negli anni ’90 ancora guidava per migliaia di chilometri la sua Golf, più acclamato della maglia rosa. Poi, dopo la morte, la verità: quegli allenamenti durante la guerra consentirono a quasi mille ebrei di avere salva la vita. Per questo Bartali è Medaglia d’oro al merito civile e, in Israele,”Giusto tra le Nazioni” e cittadino onorario di Gerusalemme.
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