“Storia popolare del calcio”: dalla gara con Hitler in tribuna a quel diavolo di Maradona



Come tutti i dittatori, di ogni regime ed epoca, anche Hitler, pur non amando il calcio, ne aveva fatto uno strumento di propaganda per soggiogare ancora di più le menti, arianizzare la società e diffondere il verbo del partito nazista. Ma, si sa, il calcio è anche anarchico, imprevedibile, inafferrabile. Quando si va in campo, scattano variabili che nemmeno un dittatore può controllare del tutto. E così capitò a Hitler che in vita sua assistette a una sola partita, vedendo la Germania perdere. Fu un piccolo esile granello certo, ma si infilò negli ingranaggi di una potentissima macchina che voleva dominare il mondo.

Accadde il 7 agosto 1936 nei quarti di finale dei giochi olimpici organizzati da Berlino per spettacolarizzare ancora di più il suo credo affidato allo sport e alle masse osannanti che lo seguivano ciecamente. Quel giorno il Fuhrer andò ad assistere alla partita, sicuro dell’inevitabile vittoria tedesca, e invece dopo appena 7 minuti un avversario, il norvegese Magnar Isaksen, segnò un gol suscitando lo sgomento generale. Ma non finì lì perché, mentre lo sconcerto serpeggiava tra 100 mila spettatori increduli, l’eroico Isaksen realizzò una seconda rete eliminando dal torneo la Germania. La pazza legge del calcio aveva decretato lo stupefacente risultato di Isaksen-Hitler 2-0. Accecato dalla rabbia e senza aspettare la fine, il dittatore lasciò rapidamente lo stadio assieme a Goebbels, Goering ed Hess. Fu la sua prima e anche ultima partita.

Questa, appena narrata, è una delle vicende che rende utile la lettura di un libro appena pubblicato dalla Leg edizioni di Gorizia e che si intitola “Storia popolare del calcio” (400 pagine, 26 euro). Scritto dal giornalista indipendente Mickael Correia, collaboratore del collettivo CQFD e della rivista JefKlak, è stato tradotto dal francese da Rosa Anna Rita Costanzo. Il suo intento è quello di fornire una visione diversa, alternativa in senso politico, del fenomeno calcio che sicuramente ha sempre rappresentato una sorta di “oppio dei popoli”, come si suol dire, ma che va riscoperto e conosciuto anche per quanto di sovversivo e democratico può contenere, come strumento di emancipazione e di resistenza verso l’ordine superiore, che sia patronale, coloniale, dittatoriale eccetera.

Il calcio, sostiene Correia mentre lo narra in maniera originale, può far emergere nuovi modi di lottare, divertirsi, comunicare, in breve di esistere, anche nelle situazioni meno libere dal punto di vista sociale e politico. Il viaggio diventa allora planetario in quanto spazia da Manchester a Buenos Aires, da Dakar a Istanbul, da San Paolo al Cairo, da Torino a Gaza.

Nella prefazione, Bruno Pizzul (che presenterà il libro oggi alle 18, alla Leg di Gorizia) afferma che, documentando in modo preciso l’evolversi alternativo del calcio, Correia «ne sottolinea efficacemente la grande capacità di polarizzare la passione popolare e indica, quasi come un monito per evitare ulteriori sbandamenti verso la prepotenza del denaro, i rischi e le degenerazioni degli ultimi tempi».

L’autore afferma appunto che, a dispetto di ogni scenario da fenomeno globalizzato, quindi soggetto al cinismo di spietate strategie commerciali, il principale potere di attrazione del calcio è ancora racchiuso nella sua semplicità e in una grammatica elementare (rimasta immutata dal 1862, quando venne fatta la prima codifica), che regala una straordinaria sensazione di libertà in quanto le partite sono sempre «un intrigo di grande intensità drammatica». Nonostante tutto, resta valida allora la celebre definizione che ne diede Socrates (il calciatore brasiliano, non il filosofo): «Cos’è il calcio? La sua bellezza è la prima cosa. La vittoria la seconda. Ma l’importante è la gioia».

Uno dei capitoli più divertenti del libro (“Dio e il diavolo”) è dedicato a Maradona. Tutto da leggere perché narra la gloria e la polvere, fino all’incredibile suggestione religiosa germogliata attorno a lui. Come ha scritto Eduardo Galeano, «un bel giorno la dea del vento baciò i piedi all’uomo, quel piede maltrattato, disprezzato, e da tale bacio nacque lui, l’idolo del calcio, il Pibe de oro».

Piede che, quando non arrivava, si trasformava in mano, come ben sappiamo a Udine dove il “miracolo” accadde il 12 maggio 1985 e il Napoli pareggiò 2-2. —

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