Roberto Gavazza, il “signor Wolf” dell’Apu: risolve problemi e fa volare la squadra in Serie A

Team manager infaticabile e punto di riferimento per giocatori e famiglie, Gavazza racconta cinque anni dietro le quinte del successo udinese: “Ho quindici famiglie, il mio lavoro è far funzionare tutto”

Giuseppe Pisano
Roberto Gavazza, team manager dell’Apu Old Wild West
Roberto Gavazza, team manager dell’Apu Old Wild West

Lui si chiama Roberto Gavazza, risolve problemi. Proprio come il celebre signor Wolf di “Pulp Fiction”, il team manager dell’Apu Old Wild West è l’uomo incaricato di fare in modo che tutto fili per il verso giusto, in campo e fuori. Udinese doc, 65 anni compiuti giusto ieri, ha un passato nella pallavolo ed è entrato a far parte dell’organigramma bianconero nell’estate 2020. Cinque anni dopo festeggia la serie A: se Udine sale in paradiso è merito anche di persone come lui, che lavorano nell’ombra per il bene del team.

Gavazza, com’è nato il suo rapporto con l’Apu?

«Era l’estate della separazione fra Pedone e Micalich, mi contattò l’ad Graberi. Sapeva che ero team manager nel volley di A2 e mi chiese se ero interessato a venire all’Apu. Ho accettato con entusiasmo, era una bella sfida per me. La prima cosa che feci fu recarmi al Carnera per controllare l’attrezzatura: mi resi conto che erano spariti i palloni».

Lei è molto popolare fra i giocatori. La acclamano, lanciano cori con suo nome. Come nasce tutto ciò?

«Ricordo che Dominique Johnson mi scrisse un messaggio bellissimo in cui mi ringraziava, perché con me ha avuto modo di rivalutare la figura del team manager. Io m’impegno tanto, sono a disposizione tutto il giorno. Non solo per i giocatori, anche per le loro famiglie: mogli, compagne, figli. Ecco, i giocatori apprezzano che io tralasci le mie passioni per dedicarmi a loro. Pensi che mi fanno tanti regali, specie le loro scarpe: ne ho così tante che potrei aprire una bancarella».

Quali sono le sue principali mansioni?

«Un buon team manager deve risolvere ogni tipo di problema. Al Carnera, ma anche nelle case e nelle famiglie dei giocatori, specialmente gli americani: è come se io avessi quindici famiglie. Poi c’è la preparazione delle trasferte: albergo, mezzi di trasporto, programmazione. Ci sono coach molto esigenti, l’importante è non farli innervosire, perché poi tutto si trasmette alla squadra».

Ci racconta una trasferta da incubo di questi cinque anni?

«A Trapani nel ’21/’22. Era tutto perfetto, ma l’aereo che doveva portarci in Sicilia fu colpito da un fulmine. Volo bloccato e ritardo di otto ore. Boniciolli era fuori di sé, avrei pilotato io l’aereo per rimediare. Arrivammo a Trapani alle 4 del mattino: una cosa snervante. Ho anche ricordi simpatici: una volta a Verona il giovane Agbara arrivò in ritardo al pullman per andare dall’hotel al palasport, ce ne accorgemmo dopo. Mi diedero la colpa. Da allora i giocatori mi fanno scherzi, si nascondono fra i sedili. Per sicurezza conto sempre due volte se siamo tutti».

Quali sono stati gli americani più difficili da gestire?

«Fare nomi sarebbe antipatico. Solo uno mi causò tanti problemi. Andava in giro per locali convinto di essere una star e di aver diritto a bere gratis. Mi chiamavano dal locale per andare a pagare, cifre anche importanti. Un altro andò dritto a una rotonda con l’auto della società, scese e lasciò lì la vettura. Mi chiamarono i carabinieri. Un altro ancora mise gasolio anziché benzina nel serbatoio, solo che si trovava a Mestre in autostrada. Però devo dire una cosa: so di colleghi che in giro per l’Italia hanno avuto problemi ben più grandi».

Il prossimo anno fate la serie A. Altri orari, altre abitudini. Sta giù studiando?

«Sì, mi sto organizzando. Ho contattato alcuni team manager, mi dicono che cambia poco rispetto alla A2. Solo l’Olimpia è un altro mondo. L’unico problema è che ci saranno 5 o 6 stranieri, per me l’impegno sarà maggiore».

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