Maxi Lopez: "Dieci gol non mi bastano, ne voglio qualcuno in più"

L'attaccante bianconero racconta la sua storia e rivela gli obiettivi personali e di squadra
Udine 6 Ottobre 2017. Intervista a Maxi Lopez. © Petrussi Foto Press
Udine 6 Ottobre 2017. Intervista a Maxi Lopez. © Petrussi Foto Press

UDINE. L’Udinese era nel suo destino. Maxi Lopez ha esordito in serie A il 31 gennaio del 2010 con la maglia del Catania proprio contro i bianconeri (1-1 il risultato), ha segnato un solo gol in un top club italiano, il Milan, proprio contro l’Udinese e quando è tornato a Catania ha di nuovo fatto centro proprio contro le zebrette.

Questo suo arrivo in Friuli, quindi, sembra quasi la chiusura del cerchio di una storia che l’argentino racconta con leggerezza. Perché il passato è bello, ma gli interessano di più presente e futuro.

E infatti quando gli si ricorda l’obiettivo dei dieci gol che significherebbero l’automatico rinnovo del contratto lui replica: «Dieci non mi bastano, ne voglio qualcuno in più per battere il mio record in Italia».

Maxi Lopez, ci racconta le sue origini?

«Sono nato a Buenos Aires, quartiere Palermo in pieno centro città con un milione di abitanti. Mio padre Riccardo, che ho perso quando avevo 12 anni, ha giocato a calcio ma non a livello professionistico. Faceva il ragioniere e portava a casa la pagnotta per la famiglia.

Eravamo in sei: mia mamma Maria, mia sorella Marcella e i fratelli Jonathan ed Ezequiel. Solo Jonathan ha provato a intraprendere la carriera del calciatore: ha giocato nella seconda squadra del Maiorca quando c’ero anch’io».

Com’è stata la sua infanzia?

«Come quella di tanti altri bambini. A pallone giocavo nella piazzetta davanti a casa. A cinque anni sono entrato al River Plate dove ho fatto tutta la trafila sia nel settore giovanile che a scuola. Mi manca un anno per il diploma. Non escludo di prendermelo per una soddisfazione personale quando avrò smesso di giocare».

Quando ha capito che avrebbe fatto il professionista nel mondo del pallone?

«A 14-15 anni quando ho visto che venivo sempre convocato nelle nazionali giovanili. Ho fatto la trafila assieme a gente come Tevez e Mascherano».

Il suo primo giorno al River se lo ricorda?

«No, sono passati troppi anni. Ho impresso in mente l’impatto con il professionismo. Ero con la nazionale e fui richiamato dal club perchè si era fatto male il centravanti.

Mi fecero giocare un’amichevole contro il Rancing che battemmo con due miei gol, tre giorni dopo giocai titolare in Coppa Libertadores contro il Gremio di Porto Alegre. In quei giorni mi arrivò un’offerta importante dall’Arsenal, importante a livello economico ma non solo: avrei potuto trasferirmi a Londra con tutta la famiglia».

Al River è stato tre stagioni. Il momento indimenticabile?

«La miglior partita della mia carriera rimane la vittoria nel derby con il Boca sul loro campo: 1-0 gol di Cavenaghi. Sorpassammo i nostri avversari in classifica e vincemmo il titolo. Chiudere la carriera al River? Sarebbe bello, ma mi allontanerei troppo dai miei figli».

Nel 2005 arriva il trasferimento al Barcellona per sostituire lo svedese Larsson, infortunato.

«Nel Barça ho avuto un infortunio di 3-4 mesi che mi ha frenato. Messi? Già a 16 anni faceva la differenza contro gente di 28. Ricordo che suo papà non lo lasciava mai solo e allora, dopo gli allenamenti, era sempre a casa mia: si passava il tempo tra tornei di play station e barbecue. L’ho rivisto a distanza di tanti anni a marzo in occasione di Juve-Barcellona ed è ancora il ragazzo umile di inizio carriera».

Quel Barcellona venne a Udine a giocare la Champions...

«Non entrai in campo. Ma ricordo la passeggiata in centro della sera prima: faceva tanto freddo».

Beh, quello vero lo ha trovato due anni dopo a Mosca...

«Al Maiorca non era andata bene, ho accettato questa proposta e i fatti mi hanno dato ragione. Ricordo che ogni martedì mi trovavo con tutti gli argentini che giocavano nelle squadre della capitale russa. Ho bel ricordo».

A proposito, perché voi argentini ovunque andate vi adattate in fretta? Non è così per gli altri sudamericani.

«Credo sia una questione di cultura, non solo calcistica. Siamo forti, determinati, ci piace guadagnarci il prestigio».

L’esordio in Italia arriva il 31 gennaio 2010: Catania-Udinese 1-1. In quella stagione gioca 17 partite e segna 11 gol.

«Fisicamente ero pronto, arrivavo da una stagione di 55 gare disputata in Brasile e che era finita a dicembre. In realtà io dovevo andare alla Lazio, era quasi tutto fatto. Mentre stavo per riprendere l’aereo e tornare all’FK Mosca, proprietario del mio cartellino, mi chiamò Lo Monaco e andai al Catania».

Nel Milan ha segnato il suo unico gol all’Udinese. Ci racconta la strana storia del suo trasferimento in rossonero?

«Avevo già firmato un quadriennale per il Fulham, poi Lo Monaco fece saltare tutto e mi disse di andare al Milan. Misi nero su bianco e mi fecero aspettare un paio di giorni che poi sono diventati una settimana. Il Milan doveva vendere Pato, prendere Tevez e annunciare il nostro ingaggio insieme. Alla fine arrivai solo io».

Con il Torino è finita male, ma i primi mesi in granata, numeri alla mano, sono stati positivi. Cosa ci può dire del Ventura allenatore?

«Siamo stati l’unica squadra italiana capace di andare a vincere a Bilbao. Quanto a Ventura ha un suo stile, è fedele ai suoi concetti di gioco che non abbandona mai. Quando siamo riusciti a interpretarli nel modo corretto abbiamo fatto risultati importanti».

Parliamo della foto di quattro anni fa che la ritrae sovrappeso in vacanza. Aveva un po’ mollato?

«No, semplicemente ero in ferie nella mia casa di Ibiza e quando sono laggiù mi lascio un po’ andare. Adesso di meno perchè più gli anni passano e più si fa fatica a recuperare».

Cosa le è mancato per avere continuità ad alto livello?

«In un calciatore conta tanto la testa. Al di là della scelta che ritengo comunque felice, andare in Russia mi ha un po’ penalizzato. Sono uscito dal calcio che più conta e ho dovuto ricominciare da capo a 25 anni a Catania».

Titolare fisso nelle giovanili dell’Argentina, ha segnato il gol decisivo nella finale dei Panamericani con il Brasile nel 2003, ma non ha mai giocato in prima squadra. Rimpianti?

«No, io ci ho provato, ma non è arrivata l’opportunità. Si vede che doveva andare così».

Il suo idolo da ragazzino?

«Batistuta. Credo sia stato un punto di riferimento per tanti della nostra generazione».

Qual è l’allenatore che ha sfruttato meglio le sue caratteristiche?

«Pekerman e Ugo Tacalli che ho avuto nelle giovanili dell’Argentina. Quanti campioni hanno scovato...».

I suoi migliori amici sono nel calcio o fuori?

«Il pallone mi ha fatto conoscere tante persone, ma gli amici veri sono quelli che giocavano con me davanti a casa. Quando torno in Argentina vado a trovarli, ma anche loro vengono in Italia».

Dove e come nasce uno spogliatoio compatto?

«Dalla disponibilità e dalla fame dei singoli. Dalla capacità del mister di creare un legame forte con i suoi giocatori».

Contro la Samp due gol senza esultare? Ma non è esagerato considerato che lei non ha giocato tanti anni in blucerchiato?

«Quando sono tornato da avversario con Catania, Chievo e Torino, Marassi mi ha sempre accolto con un grande applauso. Quella era ancora la Sampdoria di Garrone padre, una società forte con tifosi pazzeschi. A me è sembrato giusto fare così».

Adesso le mancano otto gol per conquistarsi l’automatico rinnovo del contratto. Ma se ne fa nove e tutti decisivi, la conferma non sarebbe ugualmente meritata?

«Io veramente conto di farne più di dieci, vorrei superare il mio record italiano (undici ndr.)».

Quanto la disturba la mediaticità sul suo conto complice la separazione dalla sua ex moglie Wanda Nara ora compagna di Icardi?

«Io non ho mai dato troppo peso a questa faccenda».

Icardi ha scritto un’autobiografia di recente. Lei ha mai pensato di farne una?

«Ho ricevuto due-tre offerte, ma non mi reputo uno da biografia. Un libro lo possono scrivere i campioni veri, quelli che hanno davvero qualcosa da raccontare».

Una volta ha detto: prima o poi incontrerò Icardi e gli parlerò. La pensa ancora così?

«Sì, ma non è che questo pensiero mi tolga il sonno».

Lei non ama parlare di questa sua vicenda personale, ma gli altri lo fanno. Maradona, per esempio, si è schierato dalla sua parte contro Icardi.

«Maradona è uno che non ha filtri, dice quello che pensa. E non parla perché è amico di questo o quello. Io l’ho incontrato solo una volta di persona qualche anno fa per una partita di beneficenza».

Il suo soprannome è “Gallina d’oro”. Come è nato?

«Da una mia esultanza particolare dopo un gol a Barcellona. E siccome il simbolo del River è la Gallina, ecco il soprannome. Il “d’oro” non so se è stato aggiunto perché ho i capelli biondi, diciamo che è stata una ...licenza poetica».

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