L’agente Cia e la missione in Brasile

Barba lunga, occhiaie, capelli arruffati, la camicia bianca tutta stropicciata. Sembrava una spia americana beccata dai sovietici del Kgb.

Quella foto, trasmessa da Rio, arrivò in redazione nel pomeriggio del 2 giugno 1983: ritraeva Franco Dal Cin, assediato dai famelici cronisti brasiliani (e fuori dell’albergo dall’inferocita torcida del Flamengo), mentre ufficializzava l’ingaggio da parte dell’Udinese di Zico, allora grandissimo al pari dei Messi o Ronaldo odierni.

Una notizia clamorosa che il nostro giornale aveva anticipato due giorni prima, senza che nessuno lo prendesse sul serio. Erano giorni (e notti) che Dal Cin trattava, limava, blandiva, rassicurava, con quel suo fare spiccio, in apparenza spavaldo, filtrato dalla bella presenza e dalla dote di indurre fiducia.

Persino indorò con la parola magica - scudetto! - quello che era soltanto un progetto, comunque mai più neppure sussurrato alle nostre latitudini. Davanti al manager arrivato da un puntino chiamato Friuli, epperò plenipotenziario del colosso industriale Zanussi già nel calcio come sponsor del Real Madrid, cadde ogni riserva e il Pelè bianco abbracciò la causa bianconera.

Zico, il Galinho, Arturo... Resta il campione più amato nella storia dell’Udinese e l’affetto nei suoi confronti addirittura ingigantisce nel tempo, quasi che i friulani si siano incaricati di risarcirlo con il loro amore per patti non mantenuti, per traguardi mancati, per dolori imprevisti, per umiliazioni che non meritava.

I sogni degli sportivi friulani anni Ottanta (ma potremmo togliere tranquillamente la parola “sportivi” perchè l’Udinese allora era riflesso e patrimonio di un intero popolo: 45 mila allo stadio... ) hanno in Dal Cin il motore più potente e avanzato. Fantasioso e visionario non meno che presuntuoso, anche oggi si vanta di «aver sempre pensato in grande, riuscendo quasi sempre a realizzare quanto ripromesso».

Non è una boutade se pensiamo, tra l’altro, che a lui - sbarcato coi Fantinel a Reggio - si deve il prodigio del nuovo stadio della città emiliana, spuntato dal nulla in meno di un anno e costato appena 22 miliardi di lire (era il 1995). I reggiani ringraziarono con un enorme striscione: “Dal Cin sindaco”.

Il suo impatto, a quei tempi, non fu dissimile da quello avuto nell’era Pozzo dall’ingresso in società di Gino, che ha portato nell’Udinese visioni planetarie, modelli di sviluppo tecnico e gestionale che ne fanno uno dei manager più considerati a livello mondiale.

Con qualche differenza, però: Pozzo jr maneggia soldi suoi, Dal Cin lavorava con risorse altrui. Sanson e poi Mazza gli dettero carta bianca e non se ne pentirono perchè il Ninin (così lo chiamava affettuosamente sior Teo), libero da mordacchie, sprigionava tutto il potenziale creativo: si trattasse di produrre sull’asse Chioggia-Conegliano uno dei migliori vivai nazionali, di riportare in A l’Udinese e di mantenerla, nell’era Mazza di creare le basi per una squadra da scudetto.

Il progetto, come sappiamo, rimase a metà per i guai fisici (e poi fiscali, infine risolti con la totale riabilitazione) di Zico e perchè al Cavaliere di Pordenone, ormai fuori della Zanussi, sfuggì di mano la situazione.

Così come, col piglio e le idee da grande boiardo (“anche le società di calcio devono diventare spa con fini di lucro!”, tuonava anticipando i tempi), era partito all’attacco del calcio ingessato e facilone di quegli anni, con altrettanta durezza Mazza si rapportò con uomini forti e poteri regionali, arrivando allo scontro frontale.

Usò l’Udinese come strumento di pressione anche politica, sconvolgendo i canoni della comunicazione: lanciava proclami dal suo Cosmo, appariva su una tv privata per lanciare bordate contro l’establishment locale che, a suo dire, gli era ostile.

Tra le sue vittime anche i vertici del Messaggero, contro cui aizzava i tifosi, che un giorno si spinsero fin sul piazzale del giornale con tamburi e facce truci. Ma pensare di costruire un centro di potere sul calcio, materia che più aleatoria non si può, è come edificare un grattacielo sulla sabbia.

In quelle turbolenze Dal Cin tiene duro per un anno, affannandosi a ricucire, a mediare, a cercare alleanze in fumose nottate di whisky all’hotel Astoria con i potenti della città, Udine che è diventata la sua città per affetti e amicizie, per affinità elettive.

Sussurra un nome - Gervasutta (nel rinomato Centro ortopedico udinese lo “rimontarono” con sette viti) - ai soccorritori che lo tirano fuori mezzo morto dalla Bmw piombata contro un camion militare americano guidato da un balordo in manovra per un'inversione di marcia sull’autostrada!

Dal Cin stava recandosi a Urbino per un esame universitario. Appunto: a 32 anni si era messo in testa di laurearsi. Di famiglia operaia (soldi pochi, tanto pane e masanete al venerdì), Franco non poteva che indirizzarsi verso una scuola tecnica, alla quale poi aggiunge mezzo Isef.

Sui libri tornerà a trent’anni. Lasciata l’Udinese nel 1984, a Milano sponda Inter si presenta il dottor Dal Cin, con laurea in sociologia. Dura poco: «Per 10 anni avevo comandato io con i soldi degli altri, Pellegrini voleva fare di testa sua, i miei spazi erano ridotti, mi sentivo soffocare e allora fu giocoforza divorziare».

Quella libertà che ha sempre inseguito, condizione irrinunciabile per sprigionare le sue qualità, Dal Cin l’ha trovata dopo Udine nei primi sei anni di Reggio e più da nessun’altra parte, nel calcio.

Oggi, che è un signore di 72 anni ma ne dimostra dieci di meno e alla domenica tira ancora calci al pallone, lo trovi ogni mattina verso le 11 al solito tavolino del Delser con i soliti amici (tra cui Enzo Ferrari e Mario Martini) e davanti ai soliti giornali per partite fatte di commenti, confronti, ironie, punzecchiature, puntualizzazioni, tutto quanto fa piacevole compagnia tra attualità e passato.

Schermaglie che può zittire soltanto il passaggio di una “puledra” di razza che mette tutti d’accordo. Qualche volte manca. Dov’è Franco? In Senegal. In Senegaaaal? Sì, va là per affari... piantagioni di arachidi e olio vegetale.

Da manager a coltivatore, dal pallone ai bagigi, dagli amici udinesi a quelli africani. Cambia poco se al volante della vita resta sempre la fantasia.

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