Ha lasciato una traccia profonda nel calcio italiano

MILANO.
Enzo Bearzot da tempo non stava bene. È stato, insieme con Pozzo e Lippi, uno dei tre ct italiani campioni del mondo. Figlio di un bancario, frequentò l'oratorio, facendo il chierichetto prima di dividersi fra il calcio, il jazz e i libri. Elesse Orazio a suo poeta latino preferito, senza tuttavia seguirne i consigli, come quello del «carpe diem». Uno come lui infatti avrebbe potuto pontificare in tv a suon di milioni e invece ha sempre preferito l'oblio («La riservatezza è un mio modo d'essere» diceva).


Il calcio non è stato molto riconoscente nei suoi confronti: ci si ricordava ogni tanto di lui con qualche intervista e forse c'era ancora chi gli serbava rancore per il clima pre-mondiale del 1982 che poi portò al silenzio stampa dei giocatori («Glielo sconsigliai» rivelò a Gigi Garanzini, autore del
Romanzo del Vecio
). Nonostante ci abbia regalato un titolo mondiale, a 44 anni dal secondo di Vittorio Pozzo che aveva vinto nel 1934 e 1938, Enzo Bearzot è stato sempre un «dimenticato».


In Spagna, prima del filotto di vittorie (Argentina, Brasile, Polonia) che lo portò al successo finale sulla Germania, non ebbe un rapporto molto cordiale con la stampa e con qualche influente personaggio del calcio. Prima dei giorni del trionfo e di essere proclamato «santo», era stato ricoperto di insulti a volte volgari. Non dimenticò mai certi titoli irriverenti “L'armata Brancazot”, “L’Italia dei Ridolini”, e poi le insinuazioni sul pareggio col Camerun.


A proposito di Camerun, Bearzot raccontò che gli africani gli fecero la macumba immergendo una sua foto in un mastello di liquido misterioso a due passi dallo spogliatoio azzurro. Ci fu chi parlò di «cortocircuito cerebrale» per le sue scelte e chi fece trovare alla sua famiglia scritte minacciose davanti al portone di casa.


Il suo curriculum di calciatore non fu di primissima grandezza, ma comunque importante: Pro Gorizia, Inter, Catania, Torino, Nazionale (una presenza a Budapest contro la grande Ungheria di Puskas). Da giocatore si definì «operaio specializzato del centrocampo». Da allenatore, dopo un apprendistato alla corte del Paron Nereo Rocco, approdò prima al Prato e poi in Federazione, facendo tutta la trafila azzurra, fino ad affiancare Bernardini nel dopo Valcareggi.


Quindi divenne ct guidando gli azzurri in un bel Mondiale in Argentina (quarto posto, gran gioco) e poi quello vittorioso in Spagna, che fece delirare l'Italia calcistica e non. «Una squadra è come un'orchestra che deve suonare in modo diverso, a seconda dell'avversario ed è grazie al solista che puoi vincere una partita» diceva sovente, ricordando le vittorie su Argentina e Brasile e la sua passione per il jazz.


Enzo Bearzot commise l'errore di non ritirarsi, dopo la vittoria di Madrid. «Ebbi la tentazione di abbandonare - rivelò - ma poi non seppi resistere alla tentazione di continuare per spirito di servizio: lo vollero i miei ragazzi«. Gli andò male: agli Europei del 1984 (Italia non qualificata) e ai Mondiali del 1986 (azzurri eliminati subito). Così il c.t campione del mondo piombò nell'oblio. Ha vissuto gli anni del dopo-calcio nella sua casa di Milano a curarsi un'aritmia, a fare il nonno e a fumare la fedele pipa, l'unicacosa che non l'ha mai abbandonato.

Dopo il trionfo, gli offrirono persino un collegio «sicuro» per diventare senatore: ma lui, uomo schivo, disse di no. Nonostante le critiche subite per aver puntato sempre sul blocco-Juve, Enzo Bearzot fu un innovatore: ammiratore del calcio inglese, preferì il gioco d'attacco a quello difensivo, che aveva permesso agli stranieri di appiccicarci addosso l'etichetta di «catenacciari». Ma le sue idee vennero considerate utopie. Tuttavia la sua perfetta conoscenza del calcio mondiale, maturata nei lunghi anni vissuti da osservatore, gli  fornì una visione chiara del panorama internazionale e quella cultura del «gruppo» che gli servì poi per forgiare la splendida squadra del 1982.

Quando «il Vecio» compì i 70 anni, i giocatori azzurri si radunarono in un locale di Milano per festeggiarlo. C'erano tutti, meno il povero Scirea, presente con lo spirito. Enzo Bearzot ci concesse un'intervista televisiva, l'ultima da noi fatta per la RAI: ci abbracciò sull'improvvisato palcoscenico e ci parlò non del Mondiale vinto, bensì della sua avventura calcistica di Catania dove lui, dinoccolato mediano difensivo, aveva regalato ai tifosi la prima serie A della squadra rossazzurra, nel 1954. E ci parlò del sole, del mare, dell'Etna della sua casa di Acitrezza. Un friulano tutto d'un pezzo che per un momento perdette il suo aplomb come gli era successo solo una volta: sull'aereo del rientro da Madrid, durante la partita a carte col presidente Pertini, dopo il trionfo del Bernabeu.

Bearzot non volle mai essere un «uomo-copertina», pur avendo creato un gruppo fortissimo, dove ogni giocatore era una rotella importante, decisiva: Zoff, Scirea, Tardelli, Pablito, ma anche Oriali, Marini, Conti e il giovane Bergomi, campione del mondo a 19 anni, impiegato nella finale a marcare Rummenigge, un asso già affermato. Fu lui a rigenerare Paolo Rossi, dopo il momento difficile della squalifica per lo scandalo-scommesse (stesso clima della Nazionale di Lippi in Germania, se vogliamo) e a portarlo a diventare il cannoniere del Mundial; fu lui a credere nei Graziani, Altobelli, Collovati, oltre che negli celebri Gentile, Cabrini, Causio, Antognoni; fu lui a infondere coraggio al gruppo anche quando (contro Polonia, Perù e Camerun) la partenza non era stata delle migliori.


«In Nazionale - soleva ripetere - le scelte non sono mai definitive, ma occorre avere un nucleo che dà alla squadra un'identità». Fu lui a formare quel nucleo, il gruppo, a dargli una personalità spiccata e a condurlo incredibilmente al titolo mondiale. Non possiamo dimenticare i suoi meriti nel giorno del suo addio a un mondo, quello del calcio, che è stato la sua vita. Addio, Vecio!

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