Felipe e Jimmy, il bambino e il campione. Un sogno infranto che poi s’avvera
Ricordate la storia delle trame della realtà Nba e di Hollywood? Questa volta non è solo una favola

MIAMI. Se c’è un luogo in cui le trame della realtà superano quelle di Hollywood, beh, quello è l’Nba.
La “non estate” di Miami sfiora i 30 gradi. Una manna per chi proviene da freddo e neve. Ci troviamo all’American Airlines Arena, la casa degli Heat, freschi di vittoria sui New Orleans Pelicans, dove arrivano i Boston Celtics, la squadra col miglior record della Lega.
Sugli spalti si parla americano e latino, le due lingue che fanno da passaporto a Magic city. In canotta Heat, però, non ci sono solo i tifosi locali, che già hanno il loro bel daffare a superare vocalmente la tradizionale ed eterogenea pattuglia verde che si ritrova in ogni arena della lega per sostenere le glorie di Beantown e la loro leggenda.
Sugli spalti, tra quasi 20 mila anime, vediamo un bimbo di nazionalità argentina, Felipe, che si è fatto oltre 7 mila chilometri, insieme a mamma, papà e sorella, per vedere giocare Jimmy Butler, l’iconica stella degli Heat e soprattutto il suo giocatore preferito. Non proprio due passi, se pensiamo per esempio che Cuba, da qui, di chilometri ne dista 531.
Ha portato anche uno striscione, Felipe, per richiamare l’attenzione di Butler. Recita “Jimmy, abbiamo volato più di 4.405 miglia per vederti giocare. Possiamo fare una foto insieme o avere un Big face coffee?”.
Il Big face coffee, per i non addetti ai lavori cestistici, è un business alternativo nato quasi per scherzo nella bolla delle finali Nba a Orlando, durante la pandemia. Qui Butler, stufo delle solite miscele ma soprattutto annoiato, vendeva il caffè a 20 dollari a tazza agli altri giocatori. Conscio che i colleghi giravano solitamente con in tasca solo banconote da 100 (con sopra stampato il faccione di Benjamin Franklin, da qui Big Face), Butler se ne faceva consegnare una a caffè, asserendo candidamente di girare anche lui solo con pezzi da 100 e di non avere dunque il resto. Contava, di fatto, sulla possibilità di tenersi un sostanzioso extra a ogni tazza di caffè venduta. Che ci sia riuscito a o no resta un mistero. Di certo il business è decollato e il Big Face coffee è finito perfino sullo striscione del piccolo Felipe.
Problema: arriva un gentile inserviente e supera l’imbarazzo di dover comunicare alla sorella del piccolo che proprio quella sera Jimmy Butler non giocherà. Osserverà un turno di riposo. Lei lo traduce al ragazzino e il resto lo mostra un video. Mani nei capelli e una delusione che le immagini spiegano più di mille parole.
Ma ricordate la storia delle trame della realtà Nba e di Hollywood? Ecco che una dipendente degli Heat, a fine gara, porta Felipe, la sorella e la loro bandiera argentina in campo, dove arrivano una maglia di Butler e un pallone firmato da tutti i giocatori della squadra. Arrivano perfino le tazze regalo del Big Face coffee.
Finita qui? Manco per idea. Il giorno dopo Jimmy Butler invita Felipe negli spogliatoi, trascorre una mattinata con lui, riceve la bandiera argentina con scritto “A Jimmy da Zoe e Felipe” e ricambia con una canotta rossa autografata con la scritta “Felipe. Amici per sempre. Grazie per aver viaggiato 4.405 miglia”. Poi le foto anche con mamma, papà e sorella.
Gli Heat condividono video, foto e immagini sui propri profili social e la storia fa il giro del mondo.
Certo resterebbe il fatto che il ragazzino non ha visto il suo campione giocare dal vivo, ma vorremo mica esagerare? Invece sì. Ve l’abbiamo detto, non siamo a Hollywood, quella sta dall’altra parte, in Costa ovest.
Passano tre giorni e a bordo campo di Miami Heat-Orlando Magic chi troviamo? Il piccolo Felipe, rigorosamente in divisa Heat, con la sorella. Miami vince, Jimmy ne mette 29 e a fine gara eccolo di nuovo sul campo con per mano il suo nuovo, piccolo amico.
Passo indietro, torniamo a quel Miami Heat-Boston Celtics. Sugli spalti notiamo anche un altro gruppo di ragazzi argentini. Sulle tute della società hanno lo stemma “Roma”, ma la capitale italiana non c’entra. Cantano e il motivo è inconfondibile ed esula dal basket. Intonano “Muchachos”, la canzone che ha accompagnato Messi e compagni fino alla vittoria della Coppa del Mondo in Qatar.
Il regista dell’American Airlines Arena non se la perde e manda le immagini sul maxischermo. Non esistono confini di sport e latitudini, a Magic City, quando c’è di mezzo una bella storia.
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