La classe di Praja e il Lajos Toth game: i magici anni Ottanta del basket a Udine

La scomparsa di Drazen Dalipagic, che ha fatto seguito agli addii di James Percival Hardy e dell’allenatore Lajos Toth, riporta alla mente una delle stagioni più entusiasmanti della pallacanestro friulana: il campionato di A2 1983/84, conclusosi con la promozione in A1 dell’allora Gedeco 5-3-5

Edi Fabris
Lorenzon e Dalipagic in maglia Gedeco nella stagione 1984-1985
Lorenzon e Dalipagic in maglia Gedeco nella stagione 1984-1985

La scomparsa di Drazen Dalipagic, che ha fatto seguito alle precedenti di James Percival Hardy e dell’allenatore Lajos Toth, riporta inevitabilmente alla mente una delle stagioni più entusiasmanti della pallacanestro friulana, quel campionato di A2 1983/84 in cui, dopo le nefaste previsioni della vigilia, la Gedeco 5-3-5, compagnia assicurativa che griffò le canotte biancorosse dell’Apu, conquistò la A1 grazie anche alle super prestazioni dell’asso serbo.

Fu un colpo di fortuna portare Dalipagic a Udine, ricorda l’allora direttore sportivo Andrea Fadini: «Dopo l’ultimo campionato con il Real Madrid non gli era stato rinnovato il contratto e io ne approfittai per proporgli di venire a Udine. Così, grazie anche all’intermediazione della moglie, che approvava l’avvicinamento a Belgrado, riuscii nel mio intento».

Un campione dall’immensa autostima, Dalipagic, consapevole di essere un lusso per un gruppo formato per la maggior parte da giocatori provenienti da serie inferiori, da stagioni sottotono o da ragazzi agli esordi in serie A come Valerio e Cudia, con la conseguenza che il suo carattere difficile e spesso ruvido venne spesso a galla nella difficoltà di accettare un livello inferiore a quello dei suoi standard eccellenti. «Ma i compagni lo accettavano, consapevoli di giocare a fianco di un campione che aveva vestito le canotte di Partizan e Real Madrid e quella della grande Jugoslavia insieme a Slavnic e Kicanovic – dice Luigi Colosetti, “secondo” del tecnico ungherese –. Alla fin fine il pallone doveva arrivare a lui, che dall’arco infilava sempre 30 e più punti, facendoci vincere così molte partite. Questo era il cosiddetto “Lajos Toth game”, un gioco in libertà con Praja indiscutibile terminale offensivo”.

Un campionato, quello, che appunto iniziò in sordina e si concluse con il salto nella massima serie, un secondo posto finale alle spalle delle Cantine Riunite Reggio Emilia dove giocava un altro campione regionale, il goriziano Pino Brumatti. E proprio contro la formazione emiliana ebbe luogo in un “Carnera” gremito all’inverosimile, l’8 aprile 1984, l’apoteosi finale, con la Gedeco a vincere 84 – 68, con 50 punti di “Praja”, come Dalipagic veniva appunto amichevolmente chiamato in ossequio al suo asso calcistico preferito.

Ma al di là dei risultati ottenuti sul campo, fu quella una stagione che vide la perfetta simbiosi tra squadra, società, pubblico e media, un connubio mai prima avvenuto se non nelle stagioni iniziali della Snaidero di Joe Allen nella nicchia del Marangoni. La tribunetta stampa era stata piazzata sul parquet, di fianco al tunnel d’ingresso della Gedeco, dove il capitano Bettarini metteva in ordine, in fila, la squadra prima dell’ingresso in campo, preceduta da Lajos Toth, accolto con un’ovazione, e con la marcia trionfale dell’Aida di Verdi ad accompagnare i giocatori. E a fine gara, così come al termine degli allenamenti, il trainer “gitano” a farti segno di aspettare e dopo la doccia era immancabile una puntata con lui a mangiare nervetti e patate in tecia al Marinaio o carne alla brace alla Casa Rossa, parlando, manco a dirlo, di pallacanestro. E anche con i giocatori e lo staff poco a poco s’instaurò un’amicizia duratura, da Bettarini a Milani, da Lorenzon a Pierino Cudia, da Andrea Fadini a Gigi Colosetti allo stesso Lajos Toth. Un tutto unico che l’anno successivo, nella massima serie, non fece il bis, con Toth a commentare, sibillinamente ma non troppo: «Se fucile non spara…».

Quella della Gedeco rimase comunque un’annata storica, che in assenza di restrizioni, riempì il palasport udinese dove una cappa di fumo di sigaretta aleggiava sulle squadre in campo, anche i gradini di passaggio erano gremiti, così come l’anello superiore affollato da pubblico in piedi e l’entusiasmo degli spettatori era naturale e genuino, senza sollecitazioni esterne gridate al microfono dallo speaker.

Momenti unici che lo sport odierno legato in primis al business non riesce a scalfire, a dispetto dello scorrere impietoso del tempo.

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