Behrami si racconta: «Il calcio mi ha salvato la vita, ora vorrei chiudere la carriera a Udine»

Il leader dell’Udinese narra la sua vita dentro e fuori il campo di calcio. «La mia storia: da profugo di guerra a calciatore della Svizzera»  
Behrami al Messaggero Veneto con la nostra redazione sportiva
Behrami al Messaggero Veneto con la nostra redazione sportiva

UDINE. Non solo calcio. Valon Behrami ha una storia bella e sofferta da raccontare. È diventato un calciatore di serie A, si può permettere auto costose, ha una moglie bella e altrettanto famosa (la campionessa di sci Lara Gut), ma non è stato sempre così. Lo sport, il calcio in particolare, gli ha cambiato la vita, forse gliel’ha anche salvata.

«Io sono nato in Kosovo – racconta –, quando avevo 5 anni mio padre e mia madre hanno perso il lavoro. Stava scoppiando la guerra, era pericoloso girare per strada. La Svizzera accoglieva i profughi di guerra e siamo riusciti a partire. Era il 3 dicembre, il viaggio è durato due giorni. All’arrivo il primo ricordo che ho è quello del freddo. Abbiamo vissuto un mese in albergo, ricordo che io e mia sorella, di tre anni più grande, avevamo nostalgia di casa: ascoltavamo le cassette di musica albanese per attenuare la nostalgia».

É una storia che colpisce. Valon la racconta tutta d’un fiato: «Sei anni dopo, a guerra finita, ci avevano detto che saremmo ritornati indietro. Io facevo atletica e calcio. Il padre di un mio compagno di squadra prese a cuore il caso della mia famiglia e riuscì a fare in modo di trattenerci. Di fatto il pallone mi ha cambiato la vita».

Anni dopo ha avuto la possibilità di ottenere la cittadinanza svizzera e di diventare un calciatore della nazionale elvetica. Era il 2005, Behrami aveva 20 anni. Nello stesso anno il suo cartellino fu acquistato in comproprietà dall’Udinese e dal Genoa. In bianconero ci è arrivato dodici anni dopo. Comunque un segno del destino.

«A quei tempi l’Udinese era troppa roba per me. Io sono sempre stato uno che ha cercato di fare le cose per gradi. Oggi, invece, vedo che non è così: i giovani vogliono tutto e subito. Io cerco di spiegare loro che la chiamata dalla grande squadra se uno è bravo prima o poi arriverà comunque, ma c’è troppa fretta di arrivare».

Behrami parla cinque lingue. Italiano, inglese, tedesco, francese e albanese. Il capitano perfetto in una squadra multietnica come l’Udinese. «Quando c’è un compagno che fa una battuta io traduco sempre subito per non far sentire qualcuno escluso dal gruppo». Ha giocato in Svizzera, Premier, Bundesliga e Serie A ma è l’Italia la nazione che sente più sua.

«È quella più vicina alla mia mentalità. In Germania si vive tutto professionalmente, non puoi concederti neanche una battuta. Dall’esperienza inglese, specialmente la prima al West Ham, ho imparato molto. Io avevo giocato in Champions League, ma là non sapevano chi ero. Mi sono dovuto conquistare sul campo la considerazione della gente». In Inghilterra il fattore alimentazione è uno di quelli più particolari da “gestire”: «Là fanno colazione con omelette e ketchup, dicevano che mi sarei abituato, ma non è così. Il problema era soprattutto in trasferta: loro condiscono tutto con salse, io sognavo una pasta con olio e grana».

In Italia ha giocato nel Napoli e nella Lazio. A quei tempi l’Udinese stazionava nelle zone alte della classifica. «Da fuori si vedeva che c’era un progetto serio, con tanti giocatori bravi e una mentalità radicata. C’era fame di arrivare. A me piacevano tanto Pereyra, Allan, Inler. Di Natale? Lui è un’altra storia, talento incredibile che ha fatto una scelta particolare restando a Udine. Il 99% sarebbe andato alla Juve, lui no».

Con Inler ha giocato nella Svizzera e a Napoli: «Eravamo complementari: io più di rottura, lui invece si sganciava e andava al tiro». Il compagno di squadra più forte che ha avuto è Hamsik: «Sicuramente il più completo. Anche quando non è al top, in campo non sta mai fermo, Marek è uno che ti salva sempre la vita».

Ampliando gli orizzonti ad altri sport, Behrami non nasconde la sua passione per il basket (qualche volta si è visto al Carnera a seguire la Gsa), specialmente quello Nba. «Lebron James è un idolo per tante cose: la mentalità, per come si esprime anche fuori dal campo è una fonte di ispirazione». La sua Svizzera ha dato i natali a un immortale dello sport: Roger Federer. «In tutto il mondo è un idolo, ha vinto tutto quello che c’era da vincere eppure in patria è stato criticato per qualche sua sconfitta».

Poi è tempo di buttarsi a bomba sull’Udinese. La vittoria sul Cagliari è stata una bella boccata di ossigeno per la classifica, adesso nel ritorno sarà bene dare un’acceleratina perché poi a marzo il calendario farà paura: «Non siamo una squadra che può permettersi di fare programmi. Pensiamo a una gara alla volta, credetemi è la cosa migliore». Non lancia nemmeno appelli ai tifosi: «Posso solo dire che la squadra è giovane e che ci sono ragazzi sensibili che hanno bisogno di essere sostenuti durante la partita. Poi, se si perde, alla fine i fischi ci stanno da parte di chi paga il biglietto, ma solo alla fine».

Capitolo razzismo. Dopo il caso Koulibaly in Inter-Napoli se ne fa un gran parlare. «Quando giocavo nel Napoli certi cori in campo si sentivano. L’argomento è delicato e non vorrei essere male interpretato ma quei “buuu” non so se siano davvero razzismo. Io lo considerò uno sfottò, il più sbagliato che ci sia. Al sottoscritto hanno dato dello zingaro, ma non l’ho mai considerato un insulto a sfondo razziale».

Il calcio è passione, gioie e amarezze. Behrami con la Svizzera ha partecipato alle massime competizioni. «La più grande delusione in campo per me è stata l’eliminazione al primo turno all’Europeo che giocammo in casa nel 2008. Avevo 23 anni, allora dopo una sconfitta non volevo nemmeno uscire di casa». La più grande gioia è stato il Mondiale in Russia: «Perché sapevo che per me era l’ultimo grande appuntamento e me lo sono voluto proprio assaporare momento dopo momento».

Prima di lasciare la redazione del Messaggero Veneto a Behrami viene chiesto di rispondere a una precisa domanda: le piacerebbe chiudere la carriera all’Udinese? La risposta è inappuntabile: «Mi restano ancora due-tre anni di carriera, qui sto bene. Mi piacerebbe alzare un po’ il livello dei risultati. Ma poi per fare i contratti bisogna essere d’accordo in due».

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