A Milano l’ultimo saluto a Bearzot. La bara portata dai suoi ragazzi
Sono mancate le autorità alle esequie del ct friulano campione del mondo. Cerimonia per pochi intimi. Presenti Abete (Figc), l’arbitro Casarin e gli amici

MILANO.
Enzo Bearzot se n’è andato in punta di piedi, sulle spalle dei suoi campioni, in una livida e piovosa mattina dell’inverno milanese. Nessuna «autorità costituita», al di fuori di quelle del calcio: Abete della Figc, Marchetti dell’Uefa, l’ex arbitro Casarin e qualche altro. Una cerimonia solo per gli intimi. Qualche giornalista dei suoi tempi - quelli che non lo avevano insultato nei momenti difficili - e poi la gente comune.
I frequentatori del bar dove andava nel quartiere Vigentino - qualcuno con i lacrimoni grossi così negli occhi - per dibattere molto vivacemente di calcio e di politica, così hanno detto. Oh, le lacrime le avevano anche i «suoi figli», da capitan Zoff a Tardelli, da Marini a Oriali, da Graziani a Antognoni, Bordon, Paolo Rossi, Altobelli, Conti, Cabrini, Baresi, Bergomi, Collovati e gli altri. Scirea lo ha atteso lassù. Fra i suoi collaboratori c’erano Cesare Maldini, Sergio Brighenti. E Braida del Milan, suo conterraneo. Insomma tutti quelli che non potevano mancare. Il suo ultimo viaggio verso Paderno d’Adda, il paese della moglie Luisa, dove c’è la tomba di famiglia, non poteva essere che austero, come era Enzo.
In quaranta minuti esatti, è finito tutto. Poche le parole di don Claudio, l’officiante, che ha messo in risalto il valore dell’uomo, più che del tecnico : «Era certo che il compromesso non valesse quanto la verità». E di questo qualcuno dei suoi «figli» si è lamentato, avrebbe voluto che anche al di fuori del calcio, qualcuno fosse presente.
«Bearzot è stato veramente un grande, uno che ha capito prima di tanti altri il valore del gruppo, della vita». Ha detto due parole capitan Zoff, il capitano azzurro, stringato come al solito: «Aveva pudore, era un uomo vero. Aveva dei principi e quando uno ha dei principi è facile formare il gruppo. Lui dava l’esempio a tutti».
Poi qualcuno ha raccontato degli episodi sconosciuti: «Dopo ogni partita all’estero - ha raccontato - era difficile farlo salire sul pullman per andare all’aeroporto: si fermava a parlare con i tifosi, discuteva le sue scelte, non sfuggiva alle responsabilità. Una volta ce l’aveva con l’arbitro Garrido, che non aveva fatto bene e lo voleva andare a cercare per discutere con lui di certe decisioni. Passava notti intere a parlare di calcio».
Poi, i suoi amici del bar, hanno raccontato della sua mai doma passione per la Nazionale, nelle belle e nelle cattive giornate; della sua scarsa propensione a tornare in un mondo completamente diverso dal suo. Il «vecio» insomma se n’è andato lasciando di sè le tracce di un uomo saldo nei principi e capace di restare sempre con la schiena dritta. I soldi non sono riusciti a corromperlo, ne ha saputo rimanere lontano. Raramente si concedeva a interviste oppure alla televisione. I suoi veri amini erano tutti nella piccola chiesa di Santa Maria del Paradiso, dove parecchi posti erano vuoti. Molti dei rappresentanti del calcio d’oggi non ce l’hanno fatta ad alzarsi presto (la cerimonia funebre è puntualmente cominciata alle 9) per salutare per l’ultima volta il «Vecio». Poco «glamour», poche presenze. Come si suol dire: pochi ma buoni.
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